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L'ARTE DELLA TARDA ANTICHITA' - TETRARCHIA (The Art of Late Antiquity - Tetrarchy)

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LA TARDA ANTICHITA'

Per tarda antichità si intende convenzionalmente quel periodo che va dalla metà del III secolo d.C. (età degli imperatori militari) alla fine del VI (morte di papa Gregorio Magno nel 604 circa). Essa comprende quindi l'ultima fase dell'impero romano, con la tetrarchia, la divisione tra impero d'oriente e d'occidente, sino alla dissoluzione di quest'ultimo da parte delle popolazioni barbariche. Fenomeno di primaria importanza fu l'emergere ed il definitivo affermarsi di una nuova religione, il cristianesimoche, inizialmente diffusa tra genti di umili origini (legate agli immigrati orientali ed ai commercianti), riuscì a divenire con Teodosio (fine IV secolo) la professione di fede ufficiale dello Stato.

Questo periodo non ha sempre goduto del favore della critica: la sua "riscoperta" e valutazione è anzi recente. Se con la metà del XVIII secolo lo storico inglese Edward Gibbon vi si dedicava sistematicamente, è solo dalla fine dell'Ottocento, con la scuola di Vienna ed in particolare l'opera di Alois Riegl, che si ha un adeguato apprezzamento delle manifestazioni artistiche.


Peristilio del palazzo di Diocleziano a Spalato

L'ARTE DELLA TETRARCHIA

Il periodo tetrarchico (fine III secolo), così detto per la contemporanea presenza di quattro imperatori, pur nella sua brevità, incise profondamente sulla compagine sociale e politica dell'impero, contribuendo soprattutto ad irrigidire la struttura dello Stato.

Tra le manifestazioni architettoniche, simbolo di un potere accentrato ed assoluto, va ricordato il palazzo di Diocleziano a Spalato (presso l'antica Salona) , nel quale l'imperatore si ritirò dopo l'abdicazione (in esso si insediò poi il nucleo urbano medievale di Spalato), e che rispecchia l'articolazione di un accampamento militare; e la grande villa del Casale presso Piazza Armerina (tra Enna e Caltanissetta), già ritenuta di proprietà imperiale, ma più probabilmente di un importante senatore, completamente pavimentata da preziosi mosaici raffiguranti scene di caccia, di vita quotidiana e di spettacoli circensi.


Villa del Casale presso Piazza Armerina
In scultura prevale una risoluta definizione plastica dei volumi, nitidamente scanditi (Tetrarchi di Venezia, da Costantinopoli).



La basilica dl San Marco, a Venezia. Maggior esempio di arte veneto-bizantina, secondo la tradizione fu disegnata da maestri giunti da Costantinopoli su esempio della chiesa dei S.S. Apostoli sorta lungo il Bosforo e distrutta nel XV secolo


L'ARTE NEL CRISTIANESIMO - Milano - Ravenna - Costantinopoli (ART IN CHRISTIANITY - Milan - Ravenna - Constantinople)

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Basilica di S. Ambrogio - Milano

CRISTIANESIMO E IMPERO

È con Costantino che il cristianesimo può manifestarsi senza più timori ed affermarsi attraverso costruzioni per il culto appositamente progettate. Spetta infatti all'imperatore l'emanazione nel 313 d.C. del cosiddetto editto di Milano, col quale si proclamava la libertà di culto per i cristiani.

In precedenza i cristiani si riunivano in case private, dette con termine latino domus ecclesiae, case della comunità (la più antica conservata si trova a Doura Europos, in Asia Minore).

Già prima però sono documentati i primi passi della nuova religione (che trovò fertile terreno nell'orientamento spiritualistico della cultura dell'impero sin dal l secolo d.C.) attraverso le testimonianze fornite dalle catacombe.



 Doura Europos - Rovine della casa-chiesa cristiana


Il termine (derivato da una località della via Appia presso Roma, e convenzionalmente estesosi) indica lunghe gallerie scavate nella roccia e adibite a cimitero.
Roma, grazie alla natura del terreno, presenta il massimo sviluppo di tale forma, ma non ne sono prive anche altre città (ad esempio Napoli e Siracusa).
Per la legge romana le sepolture dovevano  rigorosamente essere all'esterno della cerchia muraria. 
Così nel corso dell'alto medioevo le catacombe vennero progressivamente abbandonate, soprattutto per la pericolosità rappresentata dal suburbio. Esse vennero riscoperte solo nel XVI secolo, ed è grande merito di S. Filippo Neri e della congregazione da lui fondata (i Filippini) averne ravvivato il culto.

Le sepolture si presentavano in forma molto semplice (loculo) o più complessa (arcosolio).
Esse non sono riservate esclusivamente ai cristiani: vi sono infatti casi di catacombe pagane o giudaiche. Qui apparvero i primi simboli della nuova religione (il pesce e l'ancora, simboli di Cristo; la palma, simbolo del martirio ecc.) e qui si iniziò a dare forma alla divinità, fatto che nella religione ebraica, dalla quale quella cristiana deriva, era rigorosamente vietato.
Cristo ad esempio viene raffigurato innanzi tutto come giovane imberbe e sapiente (Cristo filosofo); solo in un secondo tempo (col IV secolo) assumerà un atteggiamento accigliato e solenne, caratterizzato da una fluente barba (tipo siriaco).


MILANO

Milano diviene una delle due capitali dell'impero sotto il governo di Massimiano (286-305 d.C.). La città deve così dotarsi delle infrastrutture necessarie per la permanenza della corte (palazzo imperiale, terme, circo, uffici per l'amministrazione ecc.), e si ingrandisce, richiedendo la costruzione di nuovi tratti delle mura. 
Accanto all'imperatore grandeggia in città la figura del vescovo: dal 374 è eletto infatti Ambrogio, protagonista della lotta contro gli ariani (eresia presto sorta ad Oriente, a cui aveva aderito la corte, che riteneva Cristo, in quanto fattosi uomo, partecipe di un grado di divinità inferiore a quello di Dio padre).



Basilica di S. Nazaro - Milano
È grazie agli scritti di Ambrogio che siamo informati con sufficiente precisione degli edifici cristiani di Milano: esisteva una cattedrale vecchia, una più recente e grande dedicata al Salvatore (e poi a S. Tecla), ed una basilica Portiana. 
Lo stesso vescovo fece costruire una basilica dedicata ai martiri (attuale S. Ambrogio), una dedicata agli Apostoli (attuale S. Nazaro), la basilica di S. Dionigi e forse quella di S. Simpliciano.



Basilica di S. Simpliciano - Milano
Nessuna notizia si possiede invece al riguardo di S. Lorenzo, uno dei più famosi edifici dell'Occidente cristiano, sorto tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, riutilizzando pietre della vicina arena. Il grande edificio a pianta centrale, anticamente preceduto da quadriportico, è articolato attraverso l'innesto di tre cappelle (S. Sisto, S. Ippolito, S. Aquilino).
In S. Aquilino, forse destinata a mausoleo imperiale, vi sono ancora preziosi resti di mosaici parietali.



San Lorenzo Maggiore a Milano, basilica paleocristiana a pianta centrale; sono annessi alla chiesa altri tre edifici: la cappella di Sant'Ippolito, I'oratorio di Sant'Aquilino e quello di San Sisto 

RAVENNA

Col 402 I'imperatore Onorio, temendo per la posizione eccessivamente esposta di Milano, si rifugia con la corte nella ben difesa Ravenna, circondata dalle acque e a breve distanza dal porto di Classe, sede della flotta imperiale.



Mausoleo di Galla Placidia - Ravenna
Come nel caso di Milano la città viene ben presto impreziosita da nuovi edifici.
Committenti privilegiati sono naturalmente i membri della corte ed i familiari dell'imperatore. Va ricordata in particolare la sorella Galla Placidia, fondatrice delle basiliche di S. Giovanni Evangelista e di S. Croce. Legata all'atrio (ardica) di quest'ultima è la piccola costruzione del cosiddetto mausoleo di Galla Placidia, raffinato scrigno interamente trasfigurato dalla decorazione musiva.



Basilica di S. Apollinare in Classe, a Ravenna, venne eretta nella prima metà del VI secolo con struttura muraria tipicamente bizantina: sottili mattoni con larghi strati di malta. L'interno è a tre navate divise da 24 colonne dl marmo greco

Basilica di S. Apollinare Nuovo - Ravenna
Alla fine del V secolo Ravenna diviene residenza di Teodorico, capo della popolazione barbarica dei Goti e signore d'Italia. Egli fa costruire nei pressi del suo palazzo la basilica di S. Apollinare Nuovo e fuori dalle mura il proprio sepolcro, esempio dell'incontro tra la cultura barbara e la sempre viva esperienza classica.



 Basilica di S. Vitale - Ravenna
Scomparso il regno goto dopo la lunga e sanguinosa guerra che I'aveva contrapposto a Giustiniano, Ravenna si arricchisce di un nuovo straordinario monumento: la basilica di S. Vitale.
È un corpo ottagono (con atrio collocato tangente ad uno spigolo) scandito da grandi pilastri e circondato da un deambulatorio; il presbiterio, non assiale, è interamente rivestito da mosaici, tra i quali spiccano due pannelli raffiguranti la consacrazione della basilica da parte del vescovo Massimiano e degli imperatori Giustiniano e Teodora (i quali però non visitarono mai Ravenna).
Si tratta quindi di un avvenimento simbolico, e questa natura è sottolineata dal fasto smagliante dei colori e dall'annullamento totale di ogni realtà spaziale: la corte sembra vivere in una dimensione eterea, che nulla ha in comune con l'esperienza quotidiana.



COSTANTINOPOLI

La città venne fondata nel 330 da Costantino sul luogo già occupato da un insediamento greco (Bisanzio). Ormai il ruolo politico ed amministrativo di Roma si era affievolito e occorreva una capitale nuova, dalla quale poter agevolmente controllare le turbolente frontiere. 
Essa venne concepita come una "seconda Roma", e con la divisione dell'impero alla morte di Teodosio divenne capitale della parte d'oriente, (ruolo che mantenne con alterne fortune sino alla conquista turca del 1453).



Chiesa di S. Sofia - Costantinopoli (Istanbul)
Il nucleo urbano fondamentale è costituito dal palazzo imperiale, presso il quale venne eretta una cappella che presto divenne la chiesa principale (S. Sofia), e l'ippodromo, nel quale si riuniva il popolo per le cerimonie più importanti e per i giochi.

Qui si trova ancora l'obelisco eretto dall'imperatore Teodosio, la cui base costituisce una delle più importanti testimonianze della scultura tardo-antica. Centro della vita cittadina era il foro di Costantino, nel quale venne collocata una colonna commemorativa dell'imperatore.

basilica di Santa Sofia (in greco "sapienza" e riferita a quella divina che assiste l'imperatore) è forse la più significativa realizzazione architettonica di questo periodo: la poderosa struttura, accentrata da una cupola di dimensioni inusitate (presto crollata e ricostruita), è completamente trasformata dalla luce che la pervade e ne modula con effetti pittorici gli spazi.



Pianta e sezione longitudinale di S. Sofia a Istanbul (Costantinopoli).
Venne 
eretta da Giustiniano al posto di una precedente basilica


SVILUPPO DELL'EMPIRISMO (Development of empiricism) - George Berkeley

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Ritratto di George Berkeley (1685-1753)

SVILUPPO DELL'EMPIRISMO (Development of empiricism)

George Berkeley (Kilkenny, 12 marzo 1685 – Oxford, 14 gennaio 1753) è stato un filosofo, teologo e vescovo irlandese, uno dei tre grandi empiristi britannici assieme a John Locke e David Hume.

Mentre Thomas Hobbes risolveva tutto in realtà fisica, George Berkeley risolse tutto in realtà intelligibile.
George Berkeley nacque a Kilkenny in Irlanda nel 1685. Studiò all'università di Dublino; insegnò e fu pubblicista a Londra; viaggiò in Francia: venne anche in Italia, come accompagnatore e precettore d'un giovane inglese; vagheggiò e stese piani di riforma morale e finanziaria. Si mise in testa di fondare a Rhode-Island, dove si recò, un collegio per I'incivilimento dei selvaggi d'America; tornato in Inghilterra, fu fatto vescovo di Cloyne; morì a Oxford nel 1753.


Opere principali:

Trattato sui principi della conoscenza umana 

Tre dialoghi fra Hylas e Philonous

Alcyphron o il Piccolo filosofo


Il Berkeley muove dall'empirismo lockiano e lo sviluppa con rigore logico, giungendo a un idealismo, o spiritualismo, radicale. Per lui non c'è motivo di distinguere le qualità primarie dalle secondarie: tutte sono soggettive, poichè tutte sono qualità sensibili, e le qualità sensibili esistono in quanto sono percepite da un soggetto senziente;  quindi l'essere delle cose si riduce al loro venir percepite o, per meglio dire, al fatto che vi sono delle percezioni: ciascuna percezione ha un quid di differenziato: questo quid determina la cosa, l'ente. 
Pertanto esse est percipi.

È assurdo, per il Berkeley, pensare a una cosa che abbia esistenza indipendente da un soggetto percipiente; se non percepita da noi, lo è sempre da Dio.
E noi esplichiamo la nostra attività percettiva attraverso e, per così dire, in sott'ordine all'attività percettiva creante di Dio. 
Esistenza vera non l'hanno dunque che Dio, spirito increato, e gli io coscienti, spiriti creati; la realtà si risolve tutta in tali spiriti, che sono soggetti e nelle idee, che sono i risultati-oggetti della loro attività percettiva.





SVILUPPO DELL'EMPIRISMO (Development of empiricism) - DAVID HUME

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David Hume in un ritratto di Allan Ramsay del 1766

David Hume (Edimburgo, 26 aprile 1711 – Edimburgo, 25 agosto 1776) è stato un filosofo e storico scozzese e, con Adam Smith e Thomas Reid, una delle figure più importanti dell'illuminismo scozzese.

SVILUPPO DELL' EMPIRISMO: DAVID HUME

Il vessato problema del rapporto fra realtà intelligibile e realtà fisica, fra spirito e corpo, è ormai considerato nullo anche da David Hume, col quale l'indirizzo empiristico inglese raggiunge il suo più alto grado: spirito e corpo non sono sostanze, ma complessi di fenomeni. 
Il problema cartesiano del rapporto fra due realtà sostanziali opposte cambia totalmente di significato e si trasforma in un problema d'interferenza di fenomeni. Si distinguono ancora il soggetto e l'oggetto, ma per quel tanto e secondo quel significato e valore, che sono compatibili col soggettivismo sensistico, nel campo della conoscenza, e con un assoluto fenomenismo nel campo della teoria della realtà.
David Hume nacque a Edimburgo nel 1711. Viaggiò molto in Italia, Olanda, Austria, Francia. 
A Vienna, a Torino, a Parigi fu segretario di legazione o d'ambasciata
Fu sottosegretario di Stato per la Scozia. 
Fu storico e filosofo, uno degli spiriti più chiari e indipendenti del Settecento, amico del Rousseau e di Adam Smith.  Tuttavia, quando dimorò a Parigi, non pochi enciclopedisti gli rimproveravano di non aver rotto tutta la catena delle superstizioni. 
Prima fu poco conosciuto, poi si affermò e la sua fama andò sempre crescendo. 
Morì nel 1776.


Opere principali: 

Trattato della natura umana

Storia delle rivoluzioni d'Inghilterra

Saggi sull'intelletto umano


George Berkeley, pur negando valore all'idea della sostanza materiale, riconosce una realtà sostanziale allo spirito. Lo Hume non riconosce valore di realtà sostanziale né alla materia né allo spirito e non ammette che fenomeni e stati di coscienza, che si succedono.

Non c'è nulla d'identico e di permanente; nemmeno I'io non è dunque una sostanza. 
La successione degli stati di coscienza è soggetta alla legge dell'associazione delle idee, cioè ai rapporti di somiglianza e di contiguità. 
Tanto nella successione dei fatti interni, quanto in quella dei fenomeni esterni, noi introduciamo un legame di necessità per sola forza d'abitudine. Quindi esso non ha validità oggettiva. 
Il nesso causale, come il sostrato sostanziale, dei fenomeni è una pura entità mentale. L'abitudine poi è effetto di ripetizione e su di essa è fondata l'induzione, che è l'attesa degli stessi fenomeni, date le stesse circostanze (Fenomenismo gnoseologico e ontologico).
Deriva, da ciò, che l'esperienza è un fluire di apparenze, tra cui l'abitudine ha fissato delle associazioni più o meno costanti. 
Di là da queste apparenze non ci è dato di passare (Scetticismo).






EMPIRISTI MINORI (Empiricists minor)

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EMPIRISTI MINORI


Pierre Gassend, detto Gassendi

L'abate Pierre Gassend, detto Gassendi (Champtercier, 22 gennaio 1592 – Parigi, 24 ottobre 1655), è stato un presbitero, filosofo, teologo, matematico, astronomo e astrologo francese), amico di Hobbes, polemizzò col Descartes, tentò di rimettere in onore la dottrina di Epicuro, cercando di conciliare meglio che poteva il materialismo con la teologia cristiana: la prima causa, egli diceva, è Dio, il quale ha messo in moto gli atomi.


 Pierre Bayle 

Altro empirista, scettico e fideista a un tempo, propugnatore della tolleranza, fu il calvinista Pierre Bayle (Carla-le-Comte, 18 novembre 1647 – Rotterdam, 28 dicembre 1706),  filosofo, scrittore ed enciclopedista francese, autore del nolo Dizionario storico e critico.


Robert Boyle 

Dal  Locke derivò la concezione delle forme e qualità dei corpi, in accordo con la sua teoria atomico-corpuscolare, l'amico del Locke, Robert Boyle (Lismore, 25 gennaio 1627 – Londra, 30 dicembre 1691) è stato un chimico, fisico, inventore e filosofo naturalista irlandese, famoso anche per i suoi scritti di teologia.


Étienne Bonnot de Condillac

Empiristi furono anche Étienne Bonnot de Condillac (Grenoble, 30 settembre 1715 – Beaugency, 3 agosto 1780), un filosofo, enciclopedista ed economista francese. Contemporaneo di Adam Smith e d'ispirazione liberale, è stato un esponente di spicco del sensismo, ma viene ricordato anche per il suo contributo alla psicologia, alla gnoseologia e alla filosofia della mente, di cui parlerò a proposito degli illuministi francesi, e gli italiani Francesco Soave e Antonio Genovesi, che pure vedremo in altre pagine.

La corrente empiristica non si spense mai, ma, mescolatasi con quella razionalistica, fu molto presente nell'illuminismo francese e in quello italiano del Settecento, nel deismo inglese pure di quel tempo, nell'empirismo italiano del primo Ottocento col Romagnosi e col Galluppi e, infine, nel positivismo, nella quale ultima filosofia subì una trasformazione, che lo riportò al naturalismo fisico, a tendenza materialistica, del suo inizio hobbesiano.





CORNELIO TACITO - GLI ANNALI (Libro XVI) CORNELIUS TACITUS - THE ANNALS (Book XVI)

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INTRODUZIONE

La vita di Cornelio Tacito ci presenta non poche e non lievi oscurità. Ignoto è il prenome, che, secondo uno scrittore tardivo, del 5° secolo, sarebbe Caius; secondo il manoscritto Mediceo, Publius.
Ignoto pure è il luogo e I'anno di nascita. Da alcune notizie, forniteci dallo storico stesso (Hist. l, l) e da una lettera di Plinio il Giovane, si deduce con molta probabilità che egli dovette nascere verso il 56 a Terni; per coloro che accettano come vera la parentela di cui, due secoli dopo, si vantava I'imperatore M. Claudio Tacito, nativo appunto di Terni; a Roma, secondo altri, che si fondano su supposizioni non più sicure della precedente. Probabilmente era provinciale, se anche non proprio di Terni.
Poche altre notizie sono accertate. Studia eloquenza, e il suo nome diventa presto celebre nel foro. Nel 78 sposa la figlia di quel Giulio Agricola, che fu il conquistatore della Britannia, e la cui figura egli esaltò nell'operetta omonima.
Al tempo dell'impero di Vespasiano comincia il cursus honorum di Tacito (Hist., l, I); questore forse nel 79, fu edile o tribuno della plebe sotto Tito, pretore sotto Domiziano nell'88.
Nei quattro anni seguenti egli fu assente da Roma: si pensa con molta verosimiglianza che si sia recato, come legato legionario, in Germania, o propretore nella Gallia Belgica. Così, certo, possiamo spiegarci meglio la singolare conoscenza che egli dimostrerà delle popolazioni germaniche nella sua famosa operetta.
Tacito ritorna a Roma quando già, nel 93, era morto il suocero, non senza sospetto di veleno per opera di Domiziano, allora divenuto isidiosissimus princeps. Sono, questi ultimi di Domiziano, anni funestati da condanne, da persecuzioni, da morti contro gli onesti, gli amatori della virtù, contro chi ancora voleva avere un proprio pensiero, contro i libri stessi dei sapienti, quasi si volesse estinguere insieme "la voce del popolo romano, la libertà del senato e la coscienza del g€enere umano", (Agr. ll). 
In questi anni di dolore e di vergogna Tacito si chiuse in disdegnoso silenzio, nella meditazione sulle vicende dell'impero da Tiberio a Domiziano, da lui veduto un po' angustamente come la tragedia della tirannide, e sulla triste natura umana.
Con I'avvento al trono di Nerva, Tacito ricompare nella vita pubblica; e, sotto Traiano, comincia la sua attività di storico. Nel 97 fu consul suffectus, cioè supplente, succedendo allo scomparso Virginio Rufo, famoso uomo di stato, e del quale pronunciò l'elogio funebre, tanto Iodato da Plinio il Giovane. Fu infine, come sappiamo dall'iscrizione scoperta a Mylasa, città della Varia, proconsole d'Asia.
Visse certamente non oltre I'anno 120.

La sua attività, fin oltre i quarant'anni, essenzialmente oratoria, ha dato come frutto, con ogni probabilità, il Dialogus de oratoribusin cui, in uno stile ciceroniano, tratta delle cause della decadenza dell'arte del dire al tempo suo, ravvisandole nelle mutate condizioni politiche e sociali.
Ma la sua grandezza è tutta nella sua opera storica, intrapresa, come s'è detto, sotto Traiano: De Vita et moribus Julii Agricolae..., De origine, situ, moribus ac populis Germanorum..., e soprattutto le Historiae e gli Annales.

L'Agricola è nello stesso tempo I'elogio del suocero e la narrazione delle conquiste da lui compiute in Britannia, con preziose notizie sull'isola e i suoi abitanti: all'esaltazione delle virtù del suocero si contrappone, come monito ai futuri imperatori, la crudeltà infame di Domiziano.

La Germaniaè una monografia di carattere geografico ed etnografico, che interessava allora per i rapporti di quelle genti con Roma, e nella quale, forse, I'ammirazione per quei popoli sani e forti, in contrasto con la corruzione di Roma, voleva essere anche un ammonimento al pericolo che incombeva sull'impero.

Le Historiae comprendono il periodo che egli stesso visse, cioè da Galba fino a Domiziano (69-96). A queste collegò, per dare un ampio quadro di tutta la vita dell'impero, gli  Annales, dal principio del regno di Tiberio fino alla morte di Nerone (14-68): l'una e l'altra opera, sfortunatamente, ci sono giunte mutile.
Come Livio della repubblicana, egli è così, pur sotto aspetti diversi, il grande storico dell'età imperiale, di quell'impero cioè, apportatore di pace, di cui, come tutti i grandi spiriti dell'età, comprendeva la necessità e che accettava volentieri, purché il princeps sapesse congiungere la signoria con la libertà, come aveva fatto Augusto e facevano Nerva e Traiano. Questa sua concezione spiega la deplorazione sua del periodo intermedio, veduto, come ho detto, essenzialmente come tirannide.
Tacito, riconnettendosi alla tradizione storica romana, ripresa tanto stupendamente da Livio, nel quale ammirava pure la concezione eloquente della storia, segue la forma annalistica, non preoccupandosi di cadere in "un ordinamento alquanto schematico dei fatti", perché la sua concezione storica non era diretta a collegare i fatti nelle loro grandi linee di sviluppo: egli non guardava alle grandi azioni politiche e militari (tanto più che I'età da lui descritta non gli offriva molta materia di questo genere); e invece si fissava sugli interni della storia, sui retroscena, sugli episodi, sulle vicende private, su tutto ciò che servisse a denotare il carattere dei personaggi e ad illuminare i moventi psicologici e morali delle azioni.

Questa di Tacito perciò è non storia di pensiero, ma di sentimenti, profondamente umana e altamente drammatica, e dove l'individuo, con le sue passioni colpevoli, i suoi odi, i suoi delitti, le sue brutture, ma talora, raramente, con la sua bontà e col suo eroismo, è I'elemento dominante; tuttavia ad una forza trascendente, inesplicabile, il Fato, soggiace una parte delle vicende umane, e la divinità, talora, fa balenare dinanzi alla colpevole umanità il suo volto inesorabile di giudice punitore.
Perciò la sua storia è unica nella storiografia romana, e solo Sallustio, sia come scrutatore d'anime sia per la maniera stilistica, gli può essere, in piccola parte, avvicinato.
Da questa drammaticità dipende la struttura, così personale, del suo periodo, che nulla ha di ciceroniano, ma anche poco, per esempio di senechiano. 
Si parli pure di varietas, di asimmetria, di concisione di sentenziosità ecc., caratteri non certo estranei, anzi comuni, alla prosa dell'età imperiale: ciò che distingue il suo stile da quello dei contemporanei è precisamente, come è facile comprendere, l'anima, che in esso sentiamo robusta, partecipante con il suo complesso di idee salde e di sentimenti onesti al proprio racconto, che ci lascia sospesi, ammirati, indignati, cioè con un mondo tumultuoso d'affetti nell'anima, com'era lo spirito dello scrittore in quel momento,

Questo giudizio, mentre ne precisa i limiti, costituisce la lode più giusta che si possa fare alle Storie e agli Annali, grandi come opere d'arte e di eloquenza, secondo il concetto che gli antichi avevano della storia.


GLI ANNALI - Libro XVI

Il XVI degli Annali, sventuratamente pervenutoci mutilo, è I'ultimo dei quattro libri comprendenti il principato di Nerone.
Accenno brevemente a quella che possiamo chiamare storia infame di Nerone, narrata da Tacito nei tre libri precedenti. 
Nato da Domizio Nerone e da Agrippina, figlia di Germanico, egli entra, giovanissimo, con sua madre Agrippina, nella casa di Claudio, dal quale, per gli intrighi di Agrippina, viene adottato, dando inizio a quella serie di brutture e di misfatti, che continueranno con I'uccisione dell'imperatore, e, dopo la sua assunzione all'impero, quando era appena diciassettenne, e la breve influenza moderatrice di Seneca e Burro, culmineranno, prevalendo in lui gli istinti perversi, con I'uccisione di Britannico, quella della madre e della prima moglie Ottavia per istigazione dell'amante Poppea, e di tanti altri ancora, specialmente dopo l'assunzione, come prefetto del pretorio, dell'infame Tigellino.
L'anno 64 è degno di memoria per un avvenimento, che diventò, per varie ragioni, famoso: l'incendio che distrusse dieci dei quattordici quartieri di Roma. Incolpato dalla voce pubblica del disastroso incendio, egli tentò di rivolgere I'odio del popolo contro i cristiani, accusandoli del misfatto e condannandoli a morire fra orribili tormenti. Seppe però approfittare dell'incendio, per ricostruire la città secondo un grandioso piano regolatore, e fabbricare per sé un palazzo di non ancor vista magnificenza, la domus aurea.
Nell'anno seguente venne scoperta una vasta congiura, che faceva capo a un nobile romano: Caio Calpurnio Pisone: vi perirono, tra gli altri, Seneca e Lucano.

A questi avvenimenti interni se ne accompagnano altri, esterni: la lunga campagna contro i Parti, fino all'incoronazione di Tiridate a Roma per mano di Nerone; la rivolta e la sanguinosa repressione della Britannia per opera del governatore Svetonio Paolino.
La mia anima di lettore però, più che su questi avvenimenti esterni, sia pure di notevole importanza, ama rivolgersi a quelli interni per l'interesse maggiore che suscita il dramma di tante anime, profondamente analizzato dalla commossa mente dello storico.

Il libro XVI è, nella parte rimastaci, dedicato esclusivamente agli ultimi avvenimenti interni dell'obbrobrioso principato neroniano. Il libro, pur non suscitando I'intenso interesse di altri, per esempio del precedente, è però esso pure di viva attrattiva per alcune figure, che in esso hanno non comune risalto.
La figura di Nerone, amalgama di violenza, di perversità, di sensualità, e di ambizione, di cupidigia di danaro e di comando, avendo egli lasciato senza freno gli istinti ricevuti in fatale eredità dal padre e dalla madre; nello stesso tempo trasportato dall'amore per ogni forma d'arte, dalla poesia e musica all'arte scenica e ai ludi circensi, e dalla passione per tutto ciò che fosse grandioso e spettacoloso, riceve in questa parte finale dell'opera i suoi ultimi, compiuti tocchi. 
La persona di Nerone è come un nume terribile, che, presente o nascosto, domina ogni cosa, avendo ogni personaggio di questa, chiamiamola pure, tragedia la sua ragione d'essere in relazione alla potenza senza limiti di lui.
Però, trascurando alcuni fatti di secondaria importanza, come la sua indecorosa esibizione sulla scena, la morte tragica di Poppea, e la storia di alcuni processi, in cui Tacito ama mettere in luce, in mezzo a tante vergogne, i rari esempi di nobiltà umana e del dolore che non conosce confini, I'interesse mio, ora, non si volge tanto all'imperatore, quanto a due figure, dal carattere affatto diverso, anzi opposto, da cui lo storico sa trarre i più grandi effetti d'arte, creando due dramatis personae vivissime: Petronio e Peto Tràsea.

Petronio, il cortigiano di Nerone è, come oggi da tutti si ammette, l'autore del Satyricon, uomo raffinato e spregiudicato, I'arbiter elegantiae della corte, che sa morire recitando levia carmina et faciles versus.
Il secondo, un senatore, era un padovano, imbevuto di stoicismo, uomo di nota integrità morale, che teneva a modello Catone, anche nell'avversione al principato, e che muore, come Seneca, parlando dell'immortalità dell'anima.

Due figure dunque, che possiamo prendere come esempi tipici delle due correnti, nel mondo delle persone colte, che in quel tempo, si notavano in Roma, in quanto che, accanto a coloro i quali, come Petronio, vivevano senza avere interessi spirituali da far valere, incuranti, per indifferenza o per cinismo, di ogni voce che venisse dalla coscienza, gaudenti più o meno raffinati, era sorta, e si accentuava, presso gli spiriti migliori, I'esigenza di trovare una soluzione ai molti problemi interessanti I'uomo, e soprattutto di trovare finalmente una soluzione al problema capitale dell'immortalità dell'anima.
Nel contrasto tra questi due mondi, tra quello fatto d'infamie e di crudeltà di Nerone o d'indifferenza morale di Petronio, e l'altro, permeato da un profondo senso morale, da una dolorosa insoddisfazione per le non soddisfacenti soluzioni dei problemi assillanti I'anima umana, consiste I'interesse e il valore del libro XVI.
Non dunque, come del resto è tutta I'opera tacitiana, opera schiettamente storica nel senso moderno, ma storia prammatica, dominata dall'interesse umano dei fatti, scelti e giudicati in base ad un criterio morale, e che servono alll'artista per tracciare un quadro di grandiosa tragicità.


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SATYRICON - Petronio Arbitro


LA MADONNA DEL PARTO - Piero della Francesca

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La Madonna del parto (1455-1460 circa) 
Piero della Francesca
Monterchi (Arezzo), cappella del cimitero
Affresco staccato, cm 250 x 203 

L'affresco, una delle opere più celebri di Piero, venne staccato nel 1910, applicato ad un nuovo
supporto, e quindi, ricollocato nella sede originaria. Mentre la parte superiore del baldacchino è una ricostruzione dovuta ad un pesante intervento di restauro,
l'immagine della Vergine e dei due angeli, realizzati attraverso il medesimo cartone rovesciato, è da ritenersi completamente autografa. 
Il tema di Maria gestante, raro nella pittura italiana, è più diffuso in area francese e spagnola.
Controversa è la cronologia del dipinto, assegnabile, secondo la maggior parte della critica, al 1460 circa.

Piero si colloca al centro della storia artistica del Rinascimento con la fatalità e la semplicità di un fenomeno della natura, eppure dovessimo dire qual è il vero carattere distintivo della sua arte ci troveremmo in imbarazzo. Ci accorgeremmo anzi, rivedendo con qualche attenzione la sua fortuna critica, che l'universale consenso raccoltosi in questo secolo intorno al nome di Piero della Francesca, si sostiene su una serie di antinomie critiche tanto più paradossali in quanto tutte legittime, tutte felicemente coesistenti. L'artista che è l'immagine stessa della pura felicità creativa, che è sinonimo di pittura luminosa, appagata, senza contrasti e quasi senza storia - come molte volte è stato detto - contiene in sé, a ben guardare, tutte le possibili contraddizioni. 
Piero è il pittore della forma al punto che nel primo Novecento egli è nell'alone di Seurat, di Cézanne e quell'orientamento di gusto contribuì non poco a renderlo celebre. Ad un certo momento egli è sembrato l'esempio perfetto, la dimostrazione antica e perciò profetica, di un concetto che ha dominato la critica d'arte fra XIX e XX secolo: di come la pittura cioè, prima di essere discorso, sia armonia di colori e di superfici. 
Eppure Piero è anche il pittore della pelle delle cose, delle armi splendenti, del pulviscolo d'oro sui capelli degli angeli, dell'ansa del Tevere nella quale si riflettono gli alberi e il cielo, delle nebbie argentee stagnanti nelle valli del Montefeltro; il pittore dei minima di verità e di natura. Piero è il grande teorematico, "miglior geometra che fusse ne' tempi suoi" secondo il Vasari, "monarca" della pittura per Luca Pacioli e i suoi libri teorici contribuirono assai per tempo a circondare il personaggio di un alone di alta e quasi esoterica scientificità; "divino" lo definisce Giovanni Testa Cillenio alla fine del'400 e "antiquo", negli stessi anni, Giovanni Santi dove I'aggettivo sembra evocare suggestioni di arcana sapienza. 
Eppure egli è un prospettico che accetta (e non sembra proprio soffrirne, come ha notato il Battisti) l'idea che il sacro violi le leggi naturali così che le proporzioni della Madonna della Misericordia sono doppie rispetto a quelle dei suoi devoti, o che la luce possa essere di provenienza miracolosa, come avviene nella pala di Brera. 
Di fatto, in pochi artisti come in lui la teoria si piega alle esigenze dell'arte, diventa duttile e relativa, e pochi artisti "teorici" sono stati più di lui opportunisti, disponibile com'era a servirsi di collaboratori anche modesti, ad usare gli stessi disegni e a duplicare il medesimo spolvero, ad accettare situazioni anche di compromesso (polittici già montati e strutturati da altri, prescrizioni iconografiche antiquate).
Egli è certo pittore aristocratico, di "frequentazione cortese" e non solo perché erano suoi clienti i signori di Urbino e di Rimini, il papa e il marchese di Ferrara. Il ritratto di Sigismondo Malatesta nel tempio dell'Alberti, in tutto il Quattrocento è un esempio insuperato di sublimazione araldica del potere assoluto e nulla appare più elitario, cerimoniale e rituale (aristocratico quindi nella accezione comune del termine) di scene come la Flagellazione di Urbino o l'Incontro fra Salomone e la regina di Saba
Ma egli è anche il pittore del Cristo risorto di Borgo Sansepolcro o della Madonna del Parto di Monterchi, opere che hanno sempre sollecitato commenti sulla rusticità innata, sulle radici contadine, sulla natura popolare della sua arte.
Ecco allora, riassumendo, un elenco delle principali contraddizioni che distinguono I'opera e la persona di Piero della Francesca. Che risulta essere, insieme, teorico ed artigiano; profondamente classico e indifferente all'archeologismo antiquario; aristocratico e popolare; massimo artefice, dopo Giotto, dell'unità della lingua figurativa italiana ma anche caratterizzato in senso locale e provinciale uomo del medioevo e protagonista della più grande mutazione in senso progressivo conosciuta dalla pittura quattrocentesca; alfiere del nuovo e nostalgico di antichi valori sociali e religiosi; poeta della forma astratta, "geometra" e prospettico, ma anche testimone impareggiabile dei minima di verità e di natura.
Eppure la pittura di Piero della Francesca è lì a dimostrarci che tutte le antinomie vengono di fatto superate in un universo figurativo e cromatico splendidamente armonioso che è la negazione stessa di qualsiasi irrisolta tensione.


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DEISTI E MORALISTI INGLESI - LA SCUOLA SCOZZESE (English Deists and moralists - The Scottish School)

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DEISTI E MORALISTI INGLESI - LA SCUOLA SCOZZESE

Abbiamo visto più volte, nella storia del pensiero europeo, la filosofia discutere, fondare, chiarire dottrine interessanti in sommo grado la fede religiosa.
Il Rinascimento, la rivoluzione protestante, l'empirismo, il razionalismo filosofico e scientifico del Seicento produssero, come si sa, profondi rivolgimenti nel campo delle credenze religiose e diedero origine, prima in Inghilterra e poi in Francia e altrove, all'accentuazione della tendenza, già affermatasi nel Cinquecento, al libero pensiero e alla professione d'una religione naturale o razionale. Questa tendenza, quando ebbe ricevuto la sua sistemazione, prese il nome di deismo e, se fiorì soprattutto nel Settecento, stampò profondamente la sua impronta anche nello spirito dell'Ottocento, così da costituire, in molte persone colte, il fondo della povera vita religiosa contemporanea.

Espressione dei tempi, il deismo costituisce una riduzione delle credenze religiose a quelle che si ritengono essenziali, quali I'esistenza di Dio, la spiritualità e I'immortalità dell'anima e la sanzione morale della vita. Ma questa stessa riduzione ha prodotto in molti una specie di "galvanizzazione" della vita spirituale, un soddisfacente facile "credo", un comodo servizio sussidiario. Evidentemente è questa una degenerazione della concezione deistica e delle intenzioni che la reggono, ma essa ne porta in seno le cause, che sono un empirismo di bassa lega, una marcata estrattezza intellettualistica e, quindi, una manchevole concretezza storica.

Varie erano le forme del deismo nel Settecento, ma tutte concordavano nel negare la rivelazione e il principio di autorità in materia religiosa. Veniva resa di nessun valore tutta la dogmatica cristiana. Si salvava, come ho già detto, il riconoscimento dell'esistenza di Dio e dell'immortalità dell'anima. Tutta la grandiosa elaborazione teologica e metafisica del neo-platonismo, della patristica e della scolastica veniva ritenuta infondata e vana. Poi ecco le estreme conseguenze: la stessa tesi dell'immortalità dell'anima si immiserì e indebolì fino a svanire, e la stessa concezione del Dio personale si risolse, a poco a poco, nelle concezioni antiche di "causa prima" della realtà, di "essere supremo", di "forza infinita", anzi di forza infinita inerente alla materia e produttrice dei fenomeni della natura.

Così ci spieghiamo come la teoria religiosa anche del migliore deismo si chiamasse religione naturale irrazionale, ma ci spieghiamo ancor meglio la qualifica di "liberi pensatori", che diedero a se stessi i primi deisti inglesi e che certo non hanno demeritata i deisti francesi, quali il Voltaire e il Rousseau.

I deisti inglesi più noti furono tutti del Settecento:

John Toland 

John Toland (Inishowen, 30 novembre 1670 – Londra, 11 marzo 1722) è stato un filosofo e scrittore irlandese. Sostenitore prima del deismo e poi di una forma di panteismo materialistico, fu avversato e combattuto da Leibniz e da Clarke.


Anthony Collins

Anthony Collins (Heston, 21 giugno 1676 – Londra, 13 dicembre 1729) è stato un filosofo inglese. Ha segnato il pensiero europeo per le sue considerazioni radicali contro fanatismi e conformismi, ed è stato vivace promotore del deismo. È anche conosciuto come bibliofilo, avendo raccolto una delle biblioteche private più fornite del suo tempo.


Samuel Clarke

Samuel Clarke (Norwich, 11 ottobre 1675 – Londra, 17 maggio 1729) è stato un filosofo inglese. Figlio di sir Edward Clarke, studiò presso la libera scuola di Norwich e al Caius College di Cambridge. La filosofia cartesiana era il sistema di pensiero dominante all'epoca; tuttavia Clarke accettò il sistema newtoniano e contribuì alla sua diffusione pubblicando una versione latina del Traité de physique di Jacques Rohault (1620 - 1675), arricchito da un notevole apparato di note, che portò a termine prima di avere compiuto il ventiduesimo anno di età.


Anthony Ashley-Cooper (Shaftesbury)

Anthony Ashley-Cooper, primo conte di Shaftesbury (22 luglio 1621 – 21 gennaio 1683), è stato un politico, filosofo e scrittore inglese. È conosciuto per essere stato il maggior protettore di John Locke.


Accanto al deismo, e in parte collegata con esso, si svolse in Inghilterra una corrente di moralisti, detti del sentimento o altrimenti del "senso morale" innato. L'iniziatore ne fu il Shaftesbury  ora ricordato, che rivendicò i diritti del sentimento immediato, contrapponendolo alla ragione. 


Francis Hutcheson

Lo seguì Francis Hutcheson (Drumalig, 8 agosto 1694 – Glasgow, 8 agosto 1746)  che dava alla ragione un ufficio subordinato nel processo dell'azione morale.


Adam Smith 

Il più notevole rappresentante di questa corrente fu lo scozzese Adam Smith (Kirkcaldy, 5 giugno 1723 – Edimburgo, 17 luglio 1790)  che, sviluppando un concetto analogo del suo connazionale Hume, pose il principio della moralità nella "simpatia". Per lui, agir bene consiste nell'ubbidire a sentimenti che ottengono la simpatia altrui; agir male è ubbidire a sentimenti coi quali gli altri non possono simpatizzare.
La simpatia universale è il fine della vita umana.
Questa sua dottrina morale è contenuta nel libro Teoria dei sentimenti morali
Maggior fama conseguì Adam Smith con lo scritto Ricerche sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, col quale contribuì, più d'ogni altro, a fondare l'economia politica come scienza.




L'accenno all'economia politica ci fa ricordare un altro moralista del Settecento, Bernard de Mandeville (Rotterdam, 15 novembre 1670 – Londra, Hackney, 21 gennaio 1733) è stato un medico e filosofo olandese, che, benchè nato in Olanda, visse quasi sempre e scrisse a Londra e nella famosa Favola delle api sostenne con tutta imperturbabilità che i vizi dei singoli sono necessari alla prosperità economica della nazione.

Ai problemi generali della filosofia e specialmente a quello del conoscere, campo di battaglia dei grandi empiristi e razionalisti, ci riporta la scuola scozzese del "senso comune", così detta per il ricorso che essa vi fa per evitare il fenomenismo e io scetticismo in cui era finito, con lo David Hume, l'indirizzo lockiano.
Era, nel campo conoscitivo, lo stesso atteggiamento assunto dai moralisti del "senso morale" nel campo pratico. Si voleva garantirsi della fondatezza oggettiva delle nostre percezioni, facendo appello alla testimonianza del buon senso "comune".

Era una filosofia alquanto terra terra, adatta del resto al comune delle persone colte, come era adatta l'altra filosofia della stessa consistenza, diffusasi contemporaneamente in Francia e in buona parte d'Italia, cioè il sensismo, che era l'empirismo alla portata di tutti.
Per fortuna, accanto ai nomi dei filosofi di queste scuole, possiamo mettere quelli di un Vico e di un Kant.


Thomas Reid 

Il fondatore della scuola scozzese del senso comune fu Thomas Reid. Nacque a Strachan, in Scozia il 26 aprile 1710; insegnò a Glascow, scrisse le Ricerche sull'intelletto umano e i Saggi sulle potenze attive dell'uomo. Si spense  a Londra il 2 aprile 1820.



Thomas Brown 


Dugald Stewart 

La sua scuola di Thomas Reid fu continuata da Dugald Stewart (Edimburgo, 22 novembre 1753 – Edimburgo, 11 giugno 1828) che è stato un filosofo britannico, rappresentante della Scuola scozzese di filosofia e da Thomas Brown (Kirkmabreck, 9 gennaio 1778 – Londra, 2 aprile 1820) un filosofo e medico scozzese.

Generalmente si fa appartenere alla scuola di Thomas Reid anche lo scozzese William Hamilton, ma le sue vedute personali in realtà ne lo distaccano. Lo vedremo, quando parlerò dei filosofi inglesi dell'Ottocento.






IL RATTO DI EUROPA (The rape of Europa) Tintoretto

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IL RATTO DI EUROPA (1541-42) Tintoretto
Modena, Galleria Estense
Tavola cm 126 x 124

Insieme ad altre tredici composizioni mitologiche tratte dalle "Metamorfosi" di Ovidio, tutte conservate nello stesso museo, decorava il soffitto di una sala del palazzo dei conti Pisani di San Paterniano.
Importante momento della fase giovanile del Tintoretto, questa serie di tele dimostra il precoce
spirito di ricerca di composizioni virtuosistiche, con scorci e prospettive di notevole energia.

Non si può propriamente definire Tintoretto un autodidatta, e tuttavia una parte consistente del suo apprendistato si regge su una grande forza di volontà e su una forte autonomia. Una prova eloquente delle ricerche stilistiche compiute nella fase giovanile è la ripetizione dei soggetti, come se Tintoretto si cimentasse continuamente con insistite "variazioni sul tema" della Madonna col Bambino o del Cristo e l'Adultera: pose, espressioni, gesti, inquadrature prospettiche sono pazientemente rivisitate.
Fra le opere più interessanti di questi anni sono le quattordici tele con scene mitologiche destinate a decorare un soffitto di Palazzo Pisani e oggi nella Galleria Estense di Modena. Databili intorno al 1541, le strane piccole tele rivelano subito il gusto per gesti, composizioni, scorci arditi e grandiosi. 

I tentativi, le curiosità, le esperienze, i momenti di crisi, i dubbi, le incertezze, ed i primi sfolgoranti successi, cioè tutti quegli oscillamenti che caratterizzano la formazione di un artista, nel caso del Tintoretto sono contenuti in una dozzina d'anni: sembreranno forse troppi, rispetto ad altri artisti il cui destino figurativo pare segnato fin dagli inizi. Ma si pensi del resto alla novità, in un certo senso rivoluzionaria, che l'arte tintorettesca è venuta significando nel quadro della pittura veneziana del Cinquecento; e allora si misurerà tutto lo sforzo che è stato necessario all'artista per raggiungere una così nuova posizione di gusto, rinnovando ex imis non solo  lo strumento linguistico della tradizione veneziana, ma facendone un mezzo docile e personalizzato per l'estrinsecazione d'una fantasia visionaria ed espressionistica: in ultima analisi cambiando il corso di quella stessa tradizione.


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ROBERT LOUIS STEVENSON - Vita e opere (Life and Work)

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ROBERT LOUIS STEVENSON
(1850 - 1894)

La figura di Robert Louis Stevenson è avvolta in un'aura di romanticismo e di avventura.
Critico, poeta e romanziere, egli è l'ultimo, e, sotto vari aspetti, il più interessante rappresentante del fantasioso puritanesimo scozzese del 19° secolo.
Nacque a Edimburgo il lii novembre 1850. D'ingegno sveglio e precoce, si dice che già a sei anni rivelasse singolari attitudini a diventar scrittore. Suo padre, noto ingegnere e costruttore di fari marittimi, sperava che il figlio avrebbe continuato la sua industria e professione, che era tradizionale nella famiglia. E difatti, il giovinetto dapprima intraprende gli studi d'ingegneria e con tanto successo, da riportare un premio per un perfezionamento del meccanismo dei fari, da lui progettato. Ma non era questa la via che gli sorrideva e nemmeno lo attiravano gli studi di legge, che seguì per breve tempo, dopo aver abbandonato quelli d'ingegneria. Il suo spirito irrequieto, bizzarro e fantasioso gli precludeva ogni possibilità di dedicarsi seriamente alle attività pratiche e d'altra parte in lui era vivissima l'ambizione di eccellere nel campo delle lettere. Si applicò pertanto con tutto l'ardore che la scarsa salute gli permetteva, agli studi letterari e cominciò a scrivere novelle e saggi per riviste e giornali.
I molti viaggi in Francia, in Germania e le romantiche peregrinazioni attraverso la Scozia contribuirono potentemente allo sviluppo della sua arte. 
Il Viaggio all'interno (1878) è una svagata descrizione di un suo vagabondaggio in barca nel Belgio, come il Viaggio con un asino nelle Cevenne (1879) è una briosa variazione delle sue peripezie in Francia.
Purtroppo, però, in questo primo periodo della sua attività letteraria, l'opera sua trova il pubblico indifferente.
Sconfortato dallo scarso successo, angustiato dalle strettezze economiche in cui versava, e rattristato dalle cattive condizioni di salute in cui si trovava la sua buona amica americana, Fanny Osbourne, (che aveva conosciuto in Francia e che doveva esercitare un potente influsso sulla sua arte e sulla sua vita) nel 1879 s'imbarca per I'America e va in California, dove risiede la donna amata. Ma qui, nei primi mesi, trascorre una vita dolorosa fra stenti e miseria che minano la sua malferma salute. 
L'anno dopo sposa la signora Osbourne, che nel frattempo aveva ottenuto il divorzio dal marito. Poi nell'autunno del 1880 torna in Scozia con la moglie ed il figliastro e si mette al lavoro con fervore. Un po' di pace e di felicità sembra sorridere ora al poeta, per quanto egli sia tormentato dagli attacchi di un male che non perdona e che Io costringe a riparare dapprima in Svizzera in una casa di cura, poi nel sud della Francia, in cerca di aure più benigne.
E questo un periodo di intensa attività: infatti tra 1882 e 1887 pubblica qualcuna delle sue opere principali; tra l'altro: Le nuove notti arabe (cioè: Le nuove mille e una notte)..., L'isola del tesoro..., Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde...,  e Il giardino poetico di un fanciullo, quest'ultimo in versi.

Con L'isola del tesoro e con Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, ha decisamente indovinato il gusto del pubblico per le letture fantastiche ed avventurose. E col successo gli arride la fama e la prosperità economica. Si stabilisce per qualche anno in Inghilterra, a Bournemouth, sulla Manica, ma nonostante le affettuose premure della moglie, la sua salute precaria va sempre più declinando. Decide pertanto di tornare in America e lascia la patria, che non dovrà  più rivedere.
Ma la sua inquietudine non gli permette una lunga permanenza negli Stati Uniti: un bel giorno s'imbarca su una goletta, il "Casco", per quello che in origine doveva essere un viaggio di piacere, ma che invece doveva diventare il suo volontario esilio.
Il "Casco" si dirige prima alle isole Marchesi, poi a Tahiti, quindi si ferma per qualche tempo a Honolulu, dove lo scrittore completa, tra l'altro, uno dei suoi romanzi più  poderosi: Il signore di Ballantrae.
La meta delle sue peregrinazioni nella Polinesia doveva essere l'isola di Samoa, dove finalmente la sua inquietudine trova pace ed il suo vagabondare trova sosta. Qui, vinto dal fascino dell'oceano sterminato, del cielo azzurro arroventato dal sole e della lussureggiante vegetazione tropicale, con l'aiuto degli indigeni che lo amano e Io considerano loro capo, si costruisce la casa ohe abiterà fino alla morte.
Nei quattro anni che vi risiede, non solo attende con fervida lena alle sue predilette occupazioni letterarie e compone numerose opere, soprattutto di carattere romanzesco, ma s'interessa vivamente delle questioni e condizioni politiche e sociali dell'isola.
Anzi, indignato dal crudele trattamento che i governanti inglesi infliggevano agli indigeni, muove una coraggiosa campagna sul "Times", che provoca un'inchiesta col conseguente licenziamento di alcuni alti funzionari della colonia.
La morte lo colse improvvisamente il 3 dicembre 1894, mentre conversa sulla veranda della sua villa, e, come aveva desiderato in vita, fu sepolto su un alto monte dell'isola, di fronte all'immensità dell'Oceano.

La produzione letteraria dello Stevenson è vasta, varia e viene variamente giudicata. Pochi sono gli scrittori che presentano una così perfetta armonia tra l'arte e la vita. Quella sua tormentosa inquietudine che lo spingeva senza posa, e senza tregua a nuovi e strani lidi, in cerca cli sempre nuove sensazioni, non poteva non riflettersi nell'amore del fantastico e dell'avventuroso che caratterizza la sua opera. Ma pur trasportandoci in un mondo di sogno e di chimere, le sue creature, tragiche o bizzarre, animose o abiette, sono così piene di vita che sembrano aderire perfettamente alla realtà. E le loro vicende, narrate in uno stile raffinato ed armonioso, animato da rapidi guizzi di capriccioso umorismo, sono esposte con tale maestria e con tale immediata evidenza, che sembrano svolgersi e profilarsi nitidamente dinnanzi all'occhio affascinato del lettore.


LA PREGHIERA DEI BIMBI (The prayer of the childrens) - Ceccardo Roccatagliata Ceccardi

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LA PREGHIERA DEI BIMBI
Da Sonetti e Poemi
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi 

I bimbi pregano il Signore
ogni sera. I buoni col cuore,
gli stolti coi labbri. Il Signore

dorme in una casa lontana, *
una casa perduta in fondo
al deserto dei cieli. Angioli

e Santi la occultan tra loro
con un meraviglioso lavoro
di nubi e di lucciole d'oro.

Le preghiere dei bimbi cattivi
si smarriscono dietro il bagliore
de le lucciole; ma quelle dei buoni

trovan la via de I'uscio lontano
a cui bussan lieve con la mano
discreta; ed entrate pian piano

pel buco de la chiave, ne' nidi
de gli uccelli s'ascondon, com'essi
aspettando che Iddio si risvegli.


Le preghiere.che i bimbi innalzano a sera prima di dormire -  i buoni col cuore, i cattivi con le labbra - salgono tutte in cielo, dove nella più remota lontananza è la casa dei Signore, che Angeli e Santi nascondono entro una cortina di nubi trapunte di stelle d'oro. In questa vaporosa luminosità si smarriscono le preghiere dei bimbi cattivi, ma quelle dei buoni sanno trovare la via che conduce alla casa di Dio. Bussano lievi alla porta ed entrati per il buco della serratura, aspettano nei nidi degli uccellini che il Signore si desti.

* II Poeta immagina la vita di Dio simile a quella degli uomini. Dunque anche Egli dorme.
E la sua casa è lontana lontana, in fondo alle sconfinate distese (al deserto) del cielo,


Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (Genova, 6 gennaio 1871 – Genova, 3 agosto 1919) è stato un poeta italiano. È stato un precursore della poesia ligure del Novecento che va da Camillo Sbarbaro a Eugenio Montale, ma nella sua formazione s'incrociano anche residui carducciani e inquietudini decadenti che rinviano a Pascoli, a D'Annunzio e ai simbolisti francesi. Nelle sue composizioni migliori s'avverte un teso lirismo che si placa a tratti in eleganti movenze elegiache o in dense evocazioni del paesaggio ligure. Genova lo ha ricordato nel novantesimo dalla sua morte con la deposizione di una corona del Comune nella via a lui dedicata il 3 agosto 2009 promossa dall'Associazione Culturale "Conoscere Genova" Onlus.




CENACOLO (L'ULTIMA CENA - The Last Supper ) - Leonardo da Vinci

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Cenacolo, 1495-1498 (Leonardo) - Milano, Refettorio di Santa Maria delle Grazie

L'incarico, ricevuto da Leonardo, di dipingere la scena dell'Ultima Cena sulla parete del Refettorio di Santa Maria delle Grazie, si inscriveva in un più vasto progetto promosso da Ludovico il Moro. Alla sua committenza fanno esplicitamente riferimento le lunette con gli stemmi sforzeschi circondati da ghirlande di fronde e frutti simbolici che alludono alla crocifissione (il pero), al martirio (la palma) e alla salvezza (il melo). 
Il duca intendeva trasformare la chiesa e il convento in un complesso monumentale con una precisa funzione celebrativa; qui infatti aveva previsto la sua sepoltura. 
Sul piano architettonico l'intervento era stato ideato dal Bramante che aveva concepito la grande tribuna come corpo a pianta centrale innestato sulla struttura tardo-gotica preesistente.

Il Cenacolo raffigurato da Leonardo doveva occupare un lato minore del vasto salone allungato del Refettorio, mentre sul lato opposto era appena stata terminata la scena della Crocifissione, dipinta dal milanese Giovanni Donato di Montorfano in uno stile ancora arcaico che il Vasari infatti definì "di maniera vecchia".

L'Ultima Cena costituisce un tema ricorrente nella pittura fiorentina del Quattrocento, e la scena è tradizionalmente caratterizzata dalla disposizione ordinata dei personaggi, lungo la tavola che si estende a occupare lo spazio in orizzontale. Rispetto a questo schema statico, si sviluppa l'interpretazione innovativa di Leonardo, che vede le monumentali figure degli apostoli addensarsi in un concitato movimento d'insieme: la sua rappresentazione è volta a fissarne la varietà degli atteggiamenti e delle reazioni nel momento topico del racconto dei Vangeli, in cui Cristo pronuncia le parole "In verità vi dico: uno di voi mi tradirà(Matteo, XXVI, 21).

La prima descrizione di quest'opera risale al 1498, I'anno stesso in cui fu completata, ed è la testimonianza del matematico Luca Pacioli, amico di Leonardo, il quale celebra il Cenacolo nella dedicatoria a Ludovico il Moro che fa da prologo al suo trattato De divina proportione. Per quel trattato Leonardo aveva elaborato i disegni dei solidi platonici regolari, simbolo dell'armonia universale; Luca Pacioli illustra il preciso intento di Leonardo di rendere la viva concitazione degli apostoli generata dalle parole di Cristo.
Si legge nel suo elogio: 

"Non è possibile con maggiore attenzione vivi gli apostoli immaginare al suono della voce de l'ineffabile verità e quando disse: Unus vestrum me traditurus est. Già da subito, anche agli occhi del Pacioli, la pittura appena realizzata appare come un mirabile teatro di gesti, una dimostrazione eloquente, attraverso il linguaggio delle immagini, della possibilità di rendere una complessa scena, in cui ciascun personaggio comunica la propria reazione emotiva; tanto che alla raffigurazione di Leonardo sembra che manchi solo il suono: con acti e gesti l'uno e l'altro e l'altro e l'uno con viva e afflicta ammiratione par che parlino.

I risultati raggiunti nel Cenacolo corrispondono alle teorie di Leonardo sui "moti dell'animo" maturati anche attraverso le ricerche di anatomia e fisiognomica. Negli scritti afferma la necessità di conferire alle figure la capacità di esprimere, attraverso gli atteggiamenti, con le posizioni delle mani e le espressioni del volto, vale a dire "co' le membra", il contenuto del loro pensiero, ovvero "il concetto della mente loro".

Si tratta dunque di rendere visibile attraverso il movimento del corpo, quello dell'animo. 
Scrive Leonardo: 

"Quella figura non fia laudabile s'ella, il più che fia possibile, non isprime coll'atto la passione de l'animo suo".

A questo proposito, vi è un precetto per il pittore, annotato da Leonardo su un foglio insieme ad alcuni studi preparatori per gli apostoli del Cenacolo; è un procedimento di natura mentale, e non tecnico-pratica, da seguire per rappresentare una figura, e consiste nel mettere a fuoco il carattere fondamentale del soggetto, cioè la sua intenzionalità. Leonardo si rivolge prima di tutto a se stesso raccomandando: 

"Quando fai la tua figura, pensa bene chi ella è e quello che tu vuoi che ella faccia, e fa che l'opera somigli l'intento e la pretensione".

A questa indicazione di metodo corrisponde l'idea della figura intesa come personaggio; un concetto indispensabile che trova la sua espressione non solo in ciascuno dei soggetti isolati nei ritratti, ma anche nelle figure all'interno della pittura di storia, laddove intervengono più personaggi che interagiscono fra loro, come rivela il caso emblematico del Cenacolo.

La concatenazione di gesti, sguardi, espressioni, segni delle mani che indicano, lega fra loro le figure degli apostoli che appaiono ritmicamente ripartiti in gruppi di tre: due gruppi per ciascun lato del Cristo, il quale rimane invece immobile al centro, come punto fisso e origine, attraverso le parole pronunciate, del movimento che si propaga come un'onda coinvolgendo le figure circostanti. 





Partendo da sinistra, il primo gruppo raffigura, con le tre teste rivolte verso il Cristo, Bartolomeo, Giacomo Minore e Andrea; quest'ultimo in un atteggiamento di stupore mirabilmente riassunto da Leonardo stesso: "colle mani aperte mostra le palme di quelle, e alzale spalli inver li orecchi e fa la bocca della maraviglia".





Il secondo gruppo è quello dal significato più complesso: riunisce insieme Giuda, Pietro e Giovanni. La figura del traditore che, in primo piano, stringe nella destra il sacchetto delle monete, è inserita tra quelle degli altri apostoli e non è collocata isolatamente dalla parte opposta della tavola, secondo I'iconografia tradizionale che lo designava come colpevole predestinato. Questo aspetto è qui rifiutato in virtù del principio del libero arbitrio, sostenuto dall'Ordine dei Domenicani a cui apparteneva la chiesa di Santa Maria delle Grazie. 
Dietro a Giuda, Pietro emerge accostandosi con le sue fattezze di vecchio a quelle invece giovani e delicate di Giovanni. Questi si inclina verso sinistra, parallelamente alla linea accennata dal paesaggio nello spazio che si apre sullo sfondo tra lui e il Cristo, il quale con il suo braccio stabilisce una direttrice obliqua opposta.





Sulla destra, il primo gruppo sembra interloquire più direttamente con il Cristo: Tommaso punta il dito verso l'alto, Giacomo Maggiore spalanca le braccia in un ampio gesto d'indignazione che misura lo spazio in profondità e sottolinea la diagonale dell'altro braccio di Cristo; Filippo indica interrogativamente se stesso. 




All'estremità destra, Matteo,Taddeo e Simone discutono fra loro con grandi gesti dimostrativi delle mani in dinamica successione, convogliando l'attenzione dal margine verso il centro.




La figura del Cristo coincide con il vertice in cui convergono le linee della costruzione prospettica, che scandisce lo spazio nel quale è ambientata la scena. 
Collocando il punto di fuga a un'altezza notevole, irraggiungibile rispetto al punto di vista reale dell'osservatore, Leonardo dimostra l'intenzione di fare un uso scenografico della prospettiva per ottenere un effetto monumentale.
La testa del Cristo interseca la linea dell'orizzonte e si staglia contro l'azzurro luminoso del cielo, inscrivendosi dentro l'apertura della porta centrale che insieme alle due finestre rivela il paesaggio sullo sfondo. 
In primo piano, la tavola costituisce un grande brano di natura morta per la precisione dei dettagli e la nitidezza della resa dei diversi materiali, come il disegno regolare delle pieghe della tovaglia o il vetro trasparente dei bicchieri.

Purtroppo, a causa della tecnica sperimentale impiegata da Leonardo, il Cenacolo cominciò ben presto a "guastarse". Il Vasari, a distanza di settant'anni dalla sua esecuzione, lo definisce "tanto male condotto che non si vede più se non una macchia abbagliata". 
A rischio di compromettere l'intera opera, come avverrà anche con la sperimentazione tentata per realizzare la Battaglia di Anghiari, il rifiuto della tecnica duratura del "buon fresco" corrisponde all'esigenza di Leonardo di poter intervenire a più riprese seguendo i tempi imprevedibili dell'elaborazione creativa. 
Il Cenacolo fu condotto da Leonardo a tempera e olio su due strati di preparazione, dipingendo su muro come se fosse su tavola, e il ritmo irregolare del lavoro è testimoniato dal racconto di Matteo Bandello che aveva visto con i suoi occhi Leonardo all'opera: 

"L'ho anche veduto (secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava) partirsi [...] e venirsene dritto alle Gratie: et asceso sul ponte pigliar il pennello, et una o due pennellate dar ad una di quelle figure e di subito partirse e andare altrove".






L'INVENZIONE DELLA STAMPA (Gutenberg - The invention of printing)

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Johann Gutenberg 

L'INVENZIONE DELLA STAMPA 

Johann Gutenberg (Johann Gensfleisch zur Laden zum Gutenberg) (Magonza, 1394-1399 circa – Magonza, 3 febbraio 1468).

Consideriamo la questione dell'invenzione della stampa. Produsse enorme impressione fra le genti del quindicesimo secolo, perchè ai loro occhi rivestì I'aspetto d'una manna del cielo; proprio nel momento in cui tutti erano avidissimi di libri, ecco il compiacente signor Pelle d'oca - o Gansfleisch che dir si voglia - provvedere il metodo di moltiplicare i rari testi originali esistenti, e ridurre alla portata di tutte le borse il valore del loro contenuto. E naturalmente Herr Gutenberg - ebbe pienamente ragione di cambiare il suo nome - continua ad essere considerato uno dei massimi benefattori dell'umanità.

Invenzione utile fu quella della stampa a caratteri mobili: invece di incidere una pagina da stampare su una tavola, come un disegno, Johann Gutenberg (Johann Gensfleisch zur Laden zum Gutenberg) (Magonza, 1394-1399 circa – Magonza, 3 febbraio 1468) è stato un orafo, inventore e tipografo tedesco, inventore della stampa a caratteri mobili, a cui dobbiamo l'inizio della tecnica della stampa moderna), nobile di Magonza, verso la metà del secolo XV ideò, da disporre su telai, e ancora utilizzabili dopo l'uso per infinite altre "composizioni", i caratteri mobili. Invenzione questa che semplificò il processo di stampa, aumentò la produzione dei libri, riducendone il costo, e contribuì alla diffusione della cultura in tutte le classi sociali che parteciparono più intensamente alla vita sociale, economica, intellettuale.
  
Il torchio di Gutenberg 

Ma il titolo, più che a lui, che si limitò a trasferire dalla mano dell'uomo alla mano meccanica la noiosa mansione di copiare, spetta all'oscuro eroe che prima si tormentò il cervello con lo scabroso problema di tradurre in segni i suoni della bocca. Al signor Gutenberg spetta nel migliore dei casi una menzione onorevole. Dell'eroe non conosciamo il nome. Non importa sapere chi fu, dove nacque e morì...
Poichè questa pagina non è scritta in lode di Gutenberg, mi limito ad affermare che I'arte della stampa è molto più vecchia di quanto generalmente si crede.
I Cinesi furono i primi a stampare le immagini usando cubetti di legno.. 
Non sappiamo se gli Europei ne copiarono il metodo; certo è che nel Duecento e nel Trecento le immagini dei Santi venivano riprodotte con l'aiuto di tavolette di legno sulle quali un qualche artista scansafatiche aveva in precedenza inciso le immagini stesse.
Il diffondersi del sapere, la ripresa dei traffici - eventi che si manifestarono nel Quattrocento - determinarono la ricerca d'un rapido e non costoso metodo di riproduzione delle cose scritte. Ed è questo che Gutenberg e i suoi rivali fornirono al mondo. A riprova della mia affermazione mi sia lecito richiamare l'attenzione sul primo documento che uscì dai torchi di Gutenberg. Era un modulo per la richiesta di Indulgenza, compilato non diversamente dagli altri moduli di richiesta telegrafica, che serviva a centinaia di migliaia di persone: il farli a mano avrebbe richiesto un mucchio di tempo e di quattrini.


Il torchio di Gutenberg 

Tuttora il torchio non smentisce le sue origini. È una specie di bocca, nera d'inchiostro, che sputa informazioni, istruzioni, barzellette, con la stessa disinvoltura con cui la bocca pronuncia saggi detti e insulse svenevolezze.
È probabilmente una di quelle invenzioni che non periranno mai, ma verrà senza fallo alleggerita di molte delle sue funzioni dalle altre vere bocche artificiale che si chiamano radio e televisione.


ALDO MANUZIO IL PRINCIPE DEI TIPOGRAFI (The prince of printers)

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Aldo Manuzio in un dipinto di Bernardino Loschi (al suo fianco Alberto III Pio)

ALDO MANUZIO IL PRINCIPE DEI TIPOGRAFI 



L'arte tipografica dalla Germania passò in Italia e qui, favorita dalla passione per gli studi, vivissima in quell'epoca da noi, incontrò un notevole successo,.quantunque criticata dai più raffinati studiosi abituati allo splendore dei libri ornati di fregi e miniature. Tra i primi stampatori
italiani si ricordano il feltrino Panfilo Castaldi ed Aldo Manuzio, il principe dei tipografi, che lavorò a Venezia.

Aldo Pio Manuzio, Aldus Pius Manutius (Bassiano, presso mSezze, 1449 – Venezia, 6 febbraio 1515), è stato un editore, tipografo e umanista veneziano. È ritenuto il maggior tipografo del suo tempo e il primo editore in senso moderno. Introdusse numerose innovazioni destinate a segnare la storia della tipografia fino ai nostri giorni.


Oggi le officine tipografiche producono ogni giorno così grande quantità di libri, fogli, giornali, che riesce difficile immaginare quale stupore generasse e diffondesse nella gente meno colta e nella dotta, l'apparizione di una "cosa" non mai vista, nè prima immaginata, un libro stampato, sulla fine del Quattrocento.
Ancor meno riusciamo a immaginare, accanto allo stupore delle menti ansiose o vaghe di novità, il profondissimo disprezzo degli artisti, dei calligrafi, delle persone di buon gusto per quella "cosa" venuta fuori da un torchio, tetra nel nero del suo inchiostro maleolente, disteso su una materia arida e vile fatta di cenci e di colla che era la carta. Bisogna aver visto uno dei libri manoscritti più luminosi di miniature e di fregi, per poter figurarsi la ripugnanza degli occhi abituati allo splendore dei colori e degli ori sulla pergamena, per un libro stampato, per uno di quei libri che noi accarezziamo come piccoli tesori chiamandoli incunaboli.
Aldo Manuzio non fu un tipografo, fu il capo e il direttore di una stamperia; e senza essere egli stesso un tecnico ebbe, perchè era un artista, la concezione artistica del libro, il senso perfetto delle esigenze estetiche e delle possibilità pratiche di una tipografia. Egli non ha mai composto una riga di sua mano, ma ha intuito il valore tecnico della stampa come strumento di civiltà, lo ha capito nelle sue minute e delicate raffinatezze estetiche.
Nessuno poteva prevedere alla fine del Quattrocento che la stamperia futura di Aldo sarebbe vissuta in gloria di secoli assai più di parecchi principati allora esistenti... Aldo ebbe la sensazione della potenza di espansione della stampa, e volle valersi di quel nuovo strumento di cultura con la volontà consapevole di rivelare i tesori della sapienza greca a una scolaresca universale, infinita... Questo era lo stato d'animo col quale egli si accingeva a tentare l'impresa nuova della sua vita.


Marca tipografica di Paolo Manuzio

Dato che Aldo è nato nel 1449 e accertato che la prima data su un libro da lui stampato è il 1494, si vede che lo stesso numero di anni all'incirca sono stati necessari alla stampa per arrivare a un grado di perfezione tecnica quasi definitiva, al Manuzio per concepire e maturare e in gran parte attuare un piano di lavoro editoriale gigantesco.
L'invenzione dei caratteri mobili, dovuta al Gutenberg, è assegnata dagli storici all'anno 1436. Prima di allora si stampava la pagina incisa su legno, più spesso figurata che scritta. Ma esistevano pure libri scritti soltanto, incisi totalmente su tavole di legno. La novità che sostituiva
alla tavola rigida e immutabile l'elasticità, l'agevolezza e la snodatura della pagina composta di tanti pezzi quante sono le lettere e gli spazi bianchi della scrittura che la occupa, era tuttavia per ragioni tecniche di scarsa utilità, perchè i tipi mobili erano pure di legno e dovevano essere incisi) uno per uno, si logoravano presto, e venivano a costare molto.

Nel 1449 l'incisore Scheffer ebbe l'idea di fare i caratteri di metallo. Questo perfezionamento segna l'inizio del vertiginoso sviluppo della stampa e fu trovato l'anno stesso in cui Aldo nasceva.
Sweynheim e Pannartz chiamati dalla Germania per desiderio di Paolo II dai monaci benedettini di Subiaco, giunsero al monastero, e vi impiantarono la prima tipografia che sia mai esistita in Italia nel 1464 e si traslocarono a Roma nel 1467. Frattanto altre tipografie sorgevano a Venezia (1469), a Trento (1470), a Foligno (1470), a Firenze (1471).
Tutte queste tipografie riunite non produssero tra il loro sorgere e il momento nel quale Manuzio si dedicò alla stamperia, cioè in una trentina di anni, più di poche centinaia di volumi, e se si ricerca quali furono questi volumi si ha un'idea confusa, ma interessante, dello stato intellettuale dell'epoca.

La stampa pose il problema che è il problema fondamentale dell'Editoria. Per il pubblico cercare quel che desidera; per I'editore indovinare e prevenire quel desiderio, producendo ciò che il pubblico cercherà. Ma quando si presentò il problema per la prima volta, il pubblico non cercava nulla, e chi stampava non aveva nessuna intenzione di indovinare i suoi desideri. 
I monaci che fecero stampare a Subiaco la grammatica di Donato, il De oratoredi Cicerone obbedirono a un suggerimento determinato dalla loro esperienza di insegnanti.
Successivamente furono riprodotti, dai mirabili manoscritti miniati, libri sacri; la Bibbia e i Libri d'oro, cioè di preghiere. E le loro leggi.

I primi libri che si sono stampati con un certo criterio, sono stati dunque per le scuole elementari e per la chiesa e per i tribunali: subito dopo si stamparono alcuni classici latini e greci e il Petrarca e Dante.
Queste pubblicazioni hanno l'aspetto di scandagli disordinati nelle esigenze del pubblico, e nel gusto delle persone colte.
Per intendere la loro saltuarietà e il loro disordine bisogna ricordare che la stampa incontrò fierissime avversioni fra gli artisti e le persone di buon gusto, perchè i suoi prodotti apparvero di una bruttezza volgare agli ammiratori e ai raccoglitori dei codici miniati.
 Il duca di Urbino diceva che mai avrebbe tollerato nella sua libreria una simile bruttura: un libro stampato. Nè fra i dotti tutti capirono il valore dell'invenzione, nè per animo furono disposti a misurarne la utilità.
Occorreva, perchè le possibilità dell'invenzione si rivelassero, che ad essa si rivolgesse una mente vasta, un animo da apostolo, uno spirito di maestro: AIdo Manuzio. 


IL PENSIERO POLITICO ITALIANO (Italian political thought) - Gioberti e Cattaneo

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IL PENSIERO POLITICO ITALIANO 

Caratteristiche generali

Nelle specifiche condizioni dell'Italia, il pensiero politico ebbe un punto di riferimento obbligato nella ricerca dei modi e delle linee di azione per giungere alla unità nazionale.

Le correnti ideali che si fronteggiavano in Europa non ebbero al momento - ossia attorno alla metà del secolo - una precisa rispondenza nel dibattito e nello scontro politico italiano, tranne - per alcuni versi - che inMazzini e in Pisacane.

Mazzini, infatti, fu il primo a indicare negli operai una autentica forza rivoluzionaria che tuttavia era stata ed era ancora tenuta al di fuori di ogni partecipazione al Risorgimento nazionale. Da giovane, Mazzini aveva detto rivolgendosi agli operai "... avete combattuto finora per il programma d'altre classi: date oggi il vostro €e annunciate collettivamente che non combatterete se non per quello".

In sostanza egli avvertì profondamente l'ingiustizia sociale, sentì la spinta a reagire contro di essa, affermando che "chi non lavora non ha diritto alla vita"..e .. "che ogni uomo deve essere retribuito a seconda dell'opera sua, avere quanto ha meritato".
Affermazioni di tipo socialista pronunciate però da un uomo che aveva, nei confronti delle idee socialiste, un atteggiamento profondamente polemico, non condividendo l'ipotesi di una lotta tra le classi. E il suo distacco da queste idee e dallo stesso movimento operaio si farà incolmabile quando, alcuni decenni più tardi, prenderà posizione contro la Comune di Parigi e l'Internazionale.

Sul piano nazionale, l'insuccesso dei moti mazziniani mise in crisi l'ideale repubblicano e favorì l'affermarsi di correnti cosiddette "moderate". II termine "moderatismo" sta a indicare, ancora oggi, una posizione politica cauta, tesa a mantenere gli equilibri esistenti, aliena da soluzioni radicali o rivoluzionarie. Storicamente il moderatismo rappresenta un atteggiamento conservatore. 
Nel Risorgimento, le correnti moderate ponevano anche esse, naturalmente, l'obiettivo della indipendenza nazionale, ma erano contrarie alle tesi di Mazzini poiché queste sostenevano la necessità di una prova di forza per giungere alla unificazione del paese. Inoltre i moderati respingevano l'idea della unità sotto un regime repubblicano e propendevano per una federazione tra gli Stati italiani.

Gioberti e Cattaneo

Questa tendenza ebbe come massimo teorico l'abate torinese Vincenzo Gioberti (1801-1852) che espose le sue idee nel libro Del primato morale e civile degli italiani, scritto nel 1842 in Belgio, dove era esiliato). Con questa opera - fortemente retorica - egli intese suscitare negli Italiani la fiducia nelle proprie qualità, cercando di dimostrare come l'avvenire e il progresso dell'Europa dipendessero dal riconoscimento generale di un "primato" italiano. Un primato derivante dal Cattolicesimo e dalla presenza in Italia del suo massimo rappresentante, il papa. E il papa per Gioberti, avrebbe dovuto appunto presiedere una federazione di Stati italiani, retti da principi legittimi ma con costituzioni di tipo liberale. Questi ideali, che furono definiti "neoguelfi" (dal nome dell'antico partito medioevale dei "guelfi", favorevoli al papa e contrapposti ai "ghibellini") non ressero alla prova dei fatti.
Tuttavia essi esercitarono una forte influenza sull'ala moderata dello schieramento risorgimentale.

All'orientamento federalista, ma di segno del tutto opposto a quello cattolico e liberale di Gioberti, appartenne il milanese Carlo Cattaneo (1801-1869). Cattaneo (le cui posizioni politiche possono essere definite di tipo radicale, sostenne una difficile battaglia su due fronti: contro le posizioni di Mazzini che egli riteneva dettate da un rivoluzionarismo senza costrutto, e contro quelle dei moderati, i quali intendevano affidare ancora una volta i destini del popolo italiano alla politica dei sovrani. Egli vedeva la soluzione del problema dell'unità nazionale attraverso una libera confederazione di Stati, su una base di autonomia, di autogoverno e di democrazia.
Cattaneo, che si era posto al centro della vita culturale italiana fondando, nel 1839, la rivista Politecnico, scrisse numerose opere tra le quali la Introduzione alle notizie naturali e civili su la Lombardia e Dell'insurrezione di Milano nel 1848 che per rigore storico e robustezza di stile pongono il loro autore tra i massimi rappresentanti della cultura romantica italiana.


Vincenzo Gioberti (Torino, 5 aprile 1801 – Parigi, 26 ottobre 1852)
fu un sacerdote, politico e filosofo italiano e il primo
Presidente della Camera dei deputati del Regno di Sardegna,
tra le principali figure del Risorgimento italiano.


VINCENZO GIOBERTI
IL PRIMATO MORALE E CIVILE DEGLI ITALIANI

"Io m'immagino la mia bella patria... "

"Io m'immagino la mia bella patria, una di lingua, di lettere, di religione, di genio nazionale, di pensiero scientifico, di costume cittadino, di accordo pubblico e privato fra i vari Stati e abitanti che la compongono (è l'idea appunto della federazione tra gli Stati italiani).
Me la immagino poderosa e unanime per un'alleanza stabile e perpetua dei suoi vari principi, la quale, accr€escendo le forze di ciascuno col concorso di quelle di tutti, farà dei loro eserciti una sola milizia italiana, assicurerà le soglie (confini) della penisola contro gl'impeti forestieri, e mediante un naviglio comune ci renderà formidabili eziandio sulle acque e partecipi cogli altri popoli nocchieri al dominio dell'oceano . . . Vedo in questa futura Italia risorgente fissi gli occhi di Europa e del mondo: veggo le altre nazioni prima attonite e poi ligie e devote, ricevere da lei per un moto spontaneo i principi del vero, la forma del bello, l'esempio e la norma del bene operare e del sentire altamente . . . Veggo infine la religione posta in cima di ogni cosa umana; i principi e i popoli gareggiar fra loro di riverenza e di amore verso il romano pontefice, riconoscendolo non solo come successore di Pietro, vicario di Cristo, e capo della Chiesa universale, ma come doge e gonfaloniere della confederazione italiana, arbitro paterno e pacificatore di Europa, istitutore e incivilitore del mondo, padre spirituale del genere umano, erede ed ampliatore naturale e pacifico della grandezza latina . . . ".


Milano - Monumento a Carlo Cattaneo - Foto Giovanni Dall'Orto 
   
CARLO  CATTANEO
L'INSURREZIONE DI MILANO NEL 1848

La guerra

Il brano che presento si riferisce alle vicende e agli episodi che precedettero le Cinque giornate di Milano. Cattaneo Ii narra col taglio di un cronista di altissimo livello. Lo stile è incalzante e rapido, senza alcuna concessione alla retorica, e tuttavia, proprio in forza della sua scarna semplicità riesce a rendere mirabilmente la tensione che animava in quei giorni i patrioti italiani e il confuso smarrimento degli Austriaci.

"Il sollevamento del Regno lombardo-veneto era universale. Senza accordi, inaspettato, divampava nello stesso giorno in Milano e in Venezia, per effetto contemporaneo delle novelle di Parigi e di Vienna. Zichy, comandante di Venezia, rese per capitolazione tutti i forti della laguna e s'imbarcò per Trieste con sette mila uomini. I presidi di Osopo e Palrna Nova furono disarmati; i montanari della Carnia e del Cadore interruppero le strade che vengono dall'Austria, il Tirolo ei mostrava agitato; v'erano in Trento solo duecento soldati, e la nuova fortezza presso Bressanone era sguernita. I giovani di Lecco, di Bergarno, di Val Tellina, di Val Camonica occuparono i passi che vengono dal Tirolo nelle Valli dell'Adda e dell'Ollio. La Rocca D'Anfo, nell'alta valle del Clisio, era presa. Il mare e le AIpi erano chiusi aI nernico.

Nell'interno, le città venete, che riputavansi tepide nella causa dell'Italia, insorsero tutte arditamente. Schwartzenberg, comandante di Brescia, patteggiò I'andata. In Bergarno, un figlio del viceré, rimasto per un momento in potere dei cittadini, riescì appena a partire co' suoi. I volontarii liberarono Varese, Como, Monza, facendo prigioni tutti i soldati.
A Cremona tremila italiani disertarono e diedero sei cannoni; quattrocento ussari chiesero d'esser lasciati partire. I forti di Pizzighettone e Piacenza, colle loro artiglierie furono abbandonati: ottocento ungaresi del presidio di Parma capitolarono a Colorno; i presidi di Modena e Reggio cercavano di rifugiarsi in Mantova.
Colonne di volontari, invano contrariate da Carlo Alberto (re del Piemonte, guardava con diffidenza ai moti insurrezionali), venivano da Genova, da Alessandria, da Casale, da Aqui, da Saluzzo. La Toscana, la Rornagna, il Regno di Napoli si apprestavano alla crociata nazionale. Smarriti in quel vasto moto, i generali stranieri si chiedevano tra loro a vicenda un soccorso che non si potevano dare; i loro dispacci venivano portati a noi. 
Scriveva nel 20 marzo il comandante di Verona:

"E' verosimile che il reggimento Fuerstenwerther sia rattenuto a Venezia dal tenente maresciallo conte Zichy; e finché non arrivi, è impossibile lasciar partire di qui il reggimento arciduca Ernesto; perché da un minuto all'altro la ribellione può farsi aperta. Tutti portano nastri tricolori; si allettò il popolo con pane e con vino. L'autorità dei magistrati non ha più forza.

Scriveva nel nel 19 marzo un figlio del viceré: 

I signori distribuiscono denari e coccarde tricolori; tutti girano tumultuando e gridando Viva l'ItaIia. Abbracciano i Croati come fratelli; e lo stesso fanno al caffè Bracolli officiali, che sembrano assai titubanti. Portarono intorno sulle spalle un ufficiale delli ussari, gridando evviva ai fratelli ungheresi. . .  Così nelle grandi piazze d'armi di Venezia, di Verona, di Mantova i presidi consueti (ovvero le truppe normalmente di stanza nelle città erano ormai numericamente insufficienti a fronteggiare la rivolta) non potevano resistere all'impeto delle popolazioni; e se vi si rifugiavano altre forze, non vi era proporzionata copia di viveri; poiché la rapacità dei capi Ii aveva sviati (se altre truppe si fossero ritirate nei presidi sarebbe sorto il problema dei viveri, di cui i capi avevano fatto incetta".



A - GRANDI INVENTORI (A - Great inventors)

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I GRANDI INVENTORI

AB - C - D - E - F - G - H - J - L - M - N - P - R - S - T - V - W - Z


ANZANI  Alessandro
(187 7-1956)


Alessandro Anzani nacque a Gorla, un sobborgo di Milano, il 5  dicembre 1877. Trascorse un'infanzia tranquilla e modesta, lavorando ancora giovanissimo nella piccola officina di uno zio materno. A 23 anni emigrò in Francia in cerca di fortuna. Si stabili a St. Nazaire. Sognando di diventate un campione ciclista, comprò una bicicletta e si dedicò con passione a questo sport. Ma il caso lo fece incontrare con il marsigliese Emile Cornet, un costruttore di motociclette, che lo spinse a interessarsi al nuovo mezzo. 
Ben presto Anzani divenne famoso in tutta la Francia per le sue imprese sportive, riuscendo a vincere nel 1906 il campionato motociclistico del mondo a Ostenda, in Belgio, alla velocità, favolosa per quei tempi, di 110 km/h. 
Con i guadagni delle sue vittorie, Anzani impiantò un'officina meccanica ad Asniers, dove oltre a riparare e a mettere a punto motociclette da corsa, cominciò a dedicarsi alla costruzione di motori.
Nel primo decennio del 1900 si stava affermando una nuova invenzione, l'aeroplano, e dopo l'America la Francia era il Paese dove destava maggiore interesse.
Anzani ben presto comprese che i motori adottati per gli aeroplani non erano efficienti, dato che non erano altro che versioni modificate di motori d'automobile. E nel 1907, inventò e mise a punto il primo vero motore per aerei destinato a divenire il capostipite dei motori a stella. 
Estremamente leggero, raffreddato ad aria, era munito di tre cilindri disposti a ventaglio, da cui il nome di "motote a ventaglio".
Anzani fu sollecitato da Raymond Saulnier, socio di Louis Blériot, a recarsi da questi per sottoporgli il suo motore. L'incontro fra i due pionieri dell'aeronautica fu cordiale, e le parole dell'entusiasta italiano convinsero Blériot a montate il nuovo motore sull'aereo che, di lì a poco, gli avrebbe consentito di compiere la prima storica traversata della Manica, il 25 luglio 1909. 
Cosi ebbe inizio la travolgente fortuna del fervido inventore italiano. La vecchia officina era ormai diventata angusta, e Anzani trasferì i suoi impianti a Courbevoie, in un nuovo grande stabilimento, da cui uscirono negli anni seguenti motori per aerei, per motociclette, trattori e automobili. 
Alla soglia dei cinquant'anni, carico di onori e di gloria, Anzani cedette la sua fabbrica al famoso costruttore di aerei Henry Potez. E si ritirò a Merville, una località del Calvados, dove morì la sera del 22 luglio 1956, all'età di 79 anni.


APPERT Nicolas-François
(1752-1841)


Francese, fabbricante e inventore di recipienti ermetici per la conservazione dei cibi. Dedicò 14 anni al perfezionamento di vasi di veto sigillati, in cui potessero essere conservati frutti, verdure, brodi, latticini e marmellate.
Perfezionò la sua invenzione nel 1810 e due anni dopo apri la prima fabbrica di cibi conservati del mondo, la Casa di Appert, a Massy, nei pressi di Parigi, rimasta in attività fino al 1911. Di cibi conservati si rifornì l'esercito di Napoleone, e intorno al 1820 il metodo di conservazione degli alimenti inventato da Appert era già in uso in tutta l'America.
Si deve invece a un commerciante inglese di nome Peter Durand, l'invenzione - anch'essa brevettata nel 1810 - di recipienti fatti di "stagno o altri metalli'' per conservare i cibi commestibili. E cibi inscatolati vennero prodotti per la prima volta, un anno dopo, da Donlin e Hall di Bermondsey, a Londra.


ARCHIMEDE
(ca. 287-212 a.C.)


Inventore, fisico e matematico greco. A lui viene attribuita l'invenzione della vite detta d'Archimede, un congegno per il sollevamento dell'acqua. Ancor oggi quel meccanismo è alla base di macchinari per lo svuotamento di fogne, e anche di tritatutto. 
Fra le sue invenzioni sono da annoverare gli enormi "specchi ustori" in grado di dirigere i raggi del sole sulle vele delle navi nemiche facendole incendiare, le gru destinate ad afferrare e capovolgere il naviglio nemico e le macchine lanciasassi, simili a enormi catapulte. Si dice che siano state usate contro i Romani quando assediarono Siracusa, la città natale di Archimede, in Sicilia. Ma nel 212 a.C., dopo tre anni di resistenza, la colonia greca fu conquistata e saccheggiata.
E in quell'occasione Archimede trovò la morte.



ARKWRIGHT Sir Richard
( 1732-1792)

                                      
Industriale tessile inglese, inventore di un rivoluzionario filatoio meccanico. Nel 1771, Arkwdght - che aveva accumulato e poi perso una fortuna come fabbricante di parrucche e tinture per capelli - costruì una macchina, azionata ad acqua, per filare il cotone. Il filo prodotto era più forte di quello ottenuto con la jenny  di James Hargreaves, inventata nel 1767. 
Arkwright introdusse la sua macchina nelle filande dell'Inghilterra settentrionale. Essa costituì Ia base della produzione in serie nell'industria cotoniera.


I GRANDI INVENTORI - The great inventors

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I GRANDI INVENTORI

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I nomi dei geni creativi cui si debbono la prima ruota, la prima ascia, la prima carrucola o il primo cuneo si sono persi nella notte dei tempi. Ma, in epoche più recenti, molti altri inventori, scopritori, pionieri e innovatori - specialmente quelli che diedero il loro contributo all'era industriale degli ultimi 300 anni - si sono conquistati la fama duratura che meritavano. 
Alcuni fecero fortuna. Altri morirono senza ricevere il giusto compenso per i preziosi servigi resi all'umanità. 
Altri ancora accumularono grandi ricchezze e diventarono nomi familiari a tutti, ma poi, sentendo di non avere più altre mete da raggiungere, si ritirarono a vita privata



Nel 1896 Guglielmo Marconi si recò in Inghilterra con la sua prima apparecchiatura di telegrafia senza fili. Nell'estate di quell'anno, il ventiduenne inventore diede una dimostrazione molto applaudita del suo sistema di telegrafia senza fili.


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I GRANDI INVENTORI

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BACON Roger
(Ilchester, 1214 circa – Oxford, 1294))


Studioso e filosofo inglese cui si deve una descrizione degli occhiali e della lente di ingrandimento. Si dice che avesse fatto da sé i suoi occhiali, a partire dalle lenti, ed egli stesso annotò che con essi "possiamo leggere le più piccole lettere". 
Bacon, conosciuto anche col nome di Doctor mirabilis, fu uno dei primi sostenitori della sperimentazione scientifica. Scrisse di navi a propulsione meccanica, di automobili, di aeroplani, di telescopi e di polvere da sparo, molto tempo prima che queste cose fossero inventate. Ma le sue idee progressiste - fra cui la convinzione che la Terra fosse rotonda - gli fruttarono 15 anni di prigione per "eresia".


BAEKELAND Leo Hendrik
(Gand, 14 novembre 1863 – Beacon, 23 febbraio 1944)


Chimico industriale belga-americano. Nel 1909 inventò la bachelite, la prima materia plastica scoperta nel mondo, resistente al calore e ottimo isolante elettrico. 
Uno dei primi ritrovati di Baekeland - una carta fotografica che si poteva sviluppare a luce artificiale - venne acquistato dalla società Kodak per 1 milione di dollari. Baekeland incontrò il fondatore della Kodak, George Eastman nel 1899 ed era disposto a vendergli la sua carta per soli 25.000 dollari. Ma trascinato dall'entusiasmo, Eastman gli offrì un milione... e Baekeland fu ben felice di accettare.


BAIRD John Logie
(Helensburgh, 13 agosto 1888 – Bexhill-on-Sea, 14 giugno 1946)


Ingegnere scozzese, inventore e pioniere della televisione. Baird diede la prima dimostrazione
pubblica di quella che chiamava "visione senza fili" nel 1926, nel suo laboratorio, situato in un attico del quartiere di Soho a Londra. Il pubblico di quella dimostrazione era composto da membri della Royal lnstitution con le loro mogli.
Da un giorno all'altro Baird divenne una celebrità ricercata da tutti: eta la prima persona che avesse mai fatto una ripresa televisiva di oggetti in movimento, fra cui anche il pupazzo di un ventriloquo.
Due anni dopo, Baird diede una dimostrazione di televisione a colori. E nel 1929 mise in onda un servizio quotidiano in bianco e nero, servendosi di una trasmittente della BBC, la quale, però, nel 1936 rivolse il suo interesse a un sistema televisivo realizzato dalla EMI e da Marconi.
Per tre mesi i due sistemi concorrenti si produssero contemporaneamente in trasmissioni pubbliche, ma poi, con immensa amarezza di Baird, il sistema rivale venne giudicato migliore per la nitidezza delle immagini e fu il solo a essere adottato.


BANTING Sir Frederick
(Alliston, 14 novembre 1891 – Terranova, 21 febbraio 1941)


Canadese, fisiologo, scopritore dell'insulina. Nell'estate del 1921, Banting prospettò a John Macleod, professore di fisiologia all'Università di Toronto, l'idea di studiare un rimedio per il diabete.
A quel tempo, si calcolava che in tutto il mondo milioni di diabetici fossero destinati a lenta e sicura morte a causa dell'altissimo tasso di zucchero nel loro organismo.
Macleod chiese ai suoi allievi se uno di loro volesse aiutare Banting nella sua ricerca. Si offrì il ventiduenne Charles Best.
Nel gennaio dell'anno successivo, dopo una serie di esperimenti su cani affetti da diabete, Banting annunciò che lui e Best avevano trovato il rimedio. Lo chiamarono insulina
Il primo essere umano a ricevete l'ormone della salvezza fu uno scolaro di dieci anni di nome Leonard Thompson. Leonard era ricoverato al General Hospital di Toronto ed era cosi debole da non poter neppure alimentarsi da solo. I medici avevano ormai perduto ogni speranza di salvarlo. Ma solo 24 ore dopo aver ricevuto la prima somministrazione di insulina, il ragazzino stava già seduto sulla sponda del letto e il suo altissimo valore di glicemia cominciava a precipitare.
Nel 1921 Banting e Macleod - che gli aveva fornito i mezzi per le ricerche - ricevettero il Premio Nobel per la medicina. Erano i primi canadesi a essere insigniti del Nobel, e tutta la gloria andò a Banting, perché il contributo di Best non venne preso in considerazione. 
Ma il vincitore divise il denaro del premio con il suo collaboratore, e l'Università di Toronto istituì un Dipartimento di ricerca intitolato a Banting e Best.


BARSANTI Eugenio
(Pietrasanta, 12 ottobre 1821 – Seraing, 18 aprile 1864)

MATTEUCCI Felice
(1808-1887)

                   
Eugenio Barsanti nacque a Pietrasanta il 12 ottobre 1821. Dopo aver compiuto gli studi liceali, entrò nell'Ordine dei Padri Scolopi, dove divenne professore di filosofia, fisica e matematica.
Nel 1841 venne chiamato a insegnate fisica alle scuole superiori di Volterra, e in quel periodo ebbe I'idea, ispirandosi alla "pistola di Volta", di utilizzare il gas metano come energia motrice.
Nel 1852 si trasferì a Firenze, a insegnare fisica e matematica all'Istituto San Giovannino, e si applicò a risolvere il problema di una macchina motrice a gas.
Avendo ottenuto dei risultati positivi, Barsanti associò l'amico Felice Matteucci, esperto fisico e idraulico, alla realizzazione del suo primo motore. 
Il 5 giugno 1853, Barsanti e Matteucci depositarono all'Accademia dei Georgofili di Firenze una memoria sulle loro esperienze relative a un motore a gas. 
Nel maggio 1854 il Governo Granducale di Toscana concesse loro il brevetto dell'invenzione.
Sempre nello stesso anno la prima macchina a gas cominciò a essere costruita presso la Fonderia del Pignone di Firenze e, terminata nel 1856, fu esposta e fatta funzionare presso le Officine di Firenze della Ferrovia Maria Antonia. 
Nel 1857 la Fonderia del Pignone costruì altre due macchine a gas. 
Altri esemplari furono realizzati dalle Officine Escher Wyss & C. di Zurigo.
Nel 1864, Barsanti si recò in Belgio per curare la costruzione di un altro motore presso le Officine Cockerill. Ma, colto da improvvisa malattia, spirò il 19 aprile 1864, nella cittadina di Seraing. La sua salma fu sepolta a Firenze. 
Oltre 20 anni dopo, nel 1888, mori a Firenze l'amico e fraterno collaboratore Felice Matteucci.


BELL Alexander Graham
(Edimburgo, 3 marzo 1847 – Beinn Bhreagh, 2 agosto 1922)


Americano di origine scozzese, insegnante di sordomuti e inventore del telefono. 
Bell era professore di fisiologia della voce all'Università di Boston quando, nel 1876, brevettò la sua "macchina parlante elettrica". Più tardi, nello stesso anno, ne diede la prima dimostrazione pubblica all'Esposizione di Filadelfia, organizzata per celebrare il 100°  anniversario della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti.
L'apparecchio trasmittente e quello ricevente erano a circa 150 metri di distanza, e Bell declamò nel microfono: "Essere o non essere, questo è il problema...".
Quello stesso giorno, l'imperatore Pedro II del Brasile, che si trovava negli Stati Uniti in visita ufficiale, si sedette al ricevitore e vi udi la celebre frase dell'Amleto di Shakespeare. Balzò in piedi eccitatissimo e si mise a gridare: "Sento, sento!".
In seguito Bell si ritiro a vivere in un'isola della Nuova Scozia. 
"Mi sento ormai cosi distaccato dal telefono" soleva dire "che spesso mi domando se l'ho inventato proprio io, o se è stato qualcun altro del quale io ho letto... »


BENZ Karl
(Karlsruhe, 25 novembre 1844 – Ladenburg, 4 aprile 1929)

  
Tedesco, inventore della prima automobile funzionante, spinta da un motore a combustione interna.
Poco prima del 1880, Benz investi tutti i suoi risparmi nella costruzione di un prototipo di motore che egli stesso aveva progettato. Il motore di Benz era cosi promettente, che egli trovò ben presto un finanziatore, e nel 1883 aprì una fabbrica a Mannheim, in Germania, per iniziarne la produzione.
Due anni dopo collaudava la prima automobile: un triciclo con le ruote di gomma piena, capace di raggiungere la velocità massima di 15 km/h. Prima della fine dello stesso anno, Benz diede una dimostrazione pubblica delle prodezze della sua automobile, e fu anche protagonista del primo incidente automobilistico del mondo, quando andò a cozzare contro un muro, a Mannheim. 
Ma nel 1888 la sua automobile era già in vendita e, sei anni dopo, la prima automobile importata in Inghilterra fu una Benz.


BERLINER Emile
(20 maggio 1851 – 3 agosto 1929)

      
Tedesco emigrato in America, inventore del grammofono e del disco. 
Dopo aver dato il suo contributo allo sviluppo del telefono, Berliner passò al campo della registrazione del suono. 
Nel 1888 presentò il suo grammofono con disco piatto, in cui una puntina si spostava lungo un solco scavato su tutta la superficie del disco. Ben presto l'invenzione di Berliner, riducendo la distorsione dei suoni incisi, sostituì il fonografo, inventato nel 1877 da Thomas Alva Edison, nel quale uno stilo si spostava su e giù, lungo un cilindro rotante.


BIRO Ladislao José 
(Budapest, 29 settembre 1899 – Buenos Aires, 24 novembre 1985)

   
Ungherese, artista e giornalista, inventore della penna a sfera.
Quand'era redattore di una rivista di Budapest, I'attenzione di Biro fu attratta dal tipo d'inchiostro a rapida essiccazione usato dai tipografi. Si chiese se un principio analogo non si sarebbe potuto applicare alla scrittura a mano, e verso la metà degli anni Trenta ideò una penna - la penna a sfera - che non macchiava. 
Nel 1918 chiese il brevetto per questa invenzione ma, prima che gli fosse concesso, scoppiò la Seconda Guerra Mondiale e, per sfuggire ai nazisti, Biro scappò in Francia, di qui in Spagna e in Argentina.
Nei primi anni Quaranta, con l'aiuto del fratello Georg, ex chimico, perfezionò la penna a sfera e si mise a fabbricarla a Buenos Aires. 
Nel 1944, ne vendette i diritti a uno dei suoi finanziatori che la produsse per le forze armate inglesi e americane.
In seguito il brevetto fu ceduto alla ditta francese Bic, che oggi produce oltre 10 milioni di penne a sfera al giorno, vendute in tutto il mondo. 
Biro visse poi quasi dimenticato in America Meridionale,  ben misero era il compenso ricevuto per un'invenzione che ha fatto del suo nome una parola sulla bocca di tutti in tutto il mondo.



BISSELL  Melville Reuben
(Hartwick, NY25 settembre 1843 - Grand Rapids , Michigan 15 marzo 1889 )

  
Americano, inventore del battitappeto. 
Intorno al 1870, Bissell, proprietario di un florido negozio di terraglie a Grand Rapids, nel Michigan, incominciò a soffrire di emicranie dovute a un'allergia alla polvere di paglia degli imballaggi delle porcellane. Per eliminare la polvere, inventò una scopa azionata a mano, munita di una spazzola rotante. La brevettò nel 1876 e poi vi aggiunse qualche perfezionamento, come le rotelline di gomma, per esempio.
In un primo tempo, a fabbricare e montare le nuove macchine provvidero lo stesso Bissell e la moglie, aiutati da alcune operaie a ore. Ma presto Bissell fondò una società per la produzione di battitappeti e apri la prima fabbrica, che produsse e lanciò in tutto il mondo le "macchine che fanno risparmiare fatica" .


BRAILLE Louis
(Coupvray, 4 gennaio 1809 – Parigi, 6 gennaio 1852)

  
Educatore francese, inventore dell'omonimo sistema di scrittura e lettura per non vedenti. 
Braille rimase cieco all'età di tre anni, quando un coltello, col quale stava giocando nel laboratorio di pelletteria del padre, gli sfuggi di mano, ferendolo a un occhio.
L'infezione sopravvenuta gli fece perdere la vista a entrambi gli occhi. 
anni dopo, Braille vinse una borsa di studio per frequentare l'Istituto Nazionale dei giovani ciechi, a Parigi, dove alcuni allievi stavano imparando a leggere con lettere impresse in rilievo su fogli di carta. Quello stesso anno - il 1819 - un capitano dell'esercito francese, Charles Barbier, inventò un sistema, che chiamò "scrittura notturna", grazie al quale si potevano scambiare messaggi nell'oscurità dei campi di battaglia, variando opportunamente uno schema base di 12 punti in rilievo.
In seguito Barbier diede una dimostrazione della sua "scrittura" all'Istituto Nazionale e Braille, che aveva allora 15 anni, la adattò a uso dei ciechi. 
L'alfabeto Braille venne pubblicato nel 1829, tre anni dopo che il suo inventore era diventato uno degli insegnanti dell'Istituto.
Nel 1837 egli presentò una versione più elaborata della sua scrittura a puntini in rilievo.
Ma fu soltanto nel 1932 che l'alfabeto Braille venne universalmente riconosciuto come il principale sistema di lettura e scrittura per non vedenti.


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HARINGTON Sir John
(Kelston, 4 agosto 1561 – 20 novembre 1612)


Cortigiano elisabettiano, uomo di spirito e inventore della latrina a getto d'acqua. Figlioccio di
Elisabetta I, Harington fu bandito dalla corte inglese nel 1584, per aver fatto circolare tra le signore una storiella piccante. 
Si ritirò nell'Inghilterra occidentale, dove si fece costruire un palazzo e nel 1589 vi impiantò la prima toeletta del mondo. 
Nel 1591, riottenuti i favori reali, fece costruite per la Regina, nel palazzo di Richmond, nel Surrey, una latrina con serbatoio, che chiamò Ajax dal termine shakespeariano a jakesche significa ritirata.
Cinque anni dopo Harington fu nuovamente bandito, stavolta per avere scritto un libro impudente, La Metamorfosi di Ajax, sul funzionamento della sua invenzione. 
Fu soprannominato "figlioccio impertinente", e nel 1599, dopo aver preso parte a una vittoriosa spedizione militare in Irlanda, venne ancora una volta perdonato e nominato cavaliere.


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JOUFFROY D'ABBANS Claude, Marchese di
(Roches-sur-Rognon en Champagne 30 settembre 1751 – Parigi 18 luglio 1832)


Ufficiale di fanteria francese, ingegnere dilettante e inventore del primo battello a vapore. 
Nel 1783, Jouffroy d'Abbans fece navigare il suo Pyroscaphe a pale contro la forte corrente del fiume Saòne, nella Francia sud-orientale. Gli altri aristocratici lo derisero perché si comportava come "un comune meccanico" ed egli non riusci a ottenere il giusto riconoscimento al suo lavoro d'avanguardia.
Nel 1816 costruì un altro piroscafo, ma rimase senza un quattrino e il servizio fluviale da lui progettato sfumò nel nulla.
Jouffroy d'Abbans morì povero e dimenticato, proprio quando in America John Fitch e Robert Fulton costruivano i loro piroscafi.
Particolare successo ebbe il Clermont di Fulton, che nel 1807 risali il fiume Hudson da New York ad Albany - circa 220 km - in 32 ore.



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