Quantcast
Viewing all 570 articles
Browse latest View live

--- Article Removed ---

***
***
*** RSSing Note: Article removed by member request. ***
***

L'OROLOGIO DELLA TECNICA NEL MEDIOEVO (The clock of the technique in the Middle Ages)

                                                         
Abituati come siamo a portare al polso o in tasca un orologio di ottima precisione, a incontrare un grande orologio altrettanto ben regolato a ogni angolo della strada, a far riferimento a segnali orari trasmessi per radio e per TV cinque o sei volte al giorno e, in caso di necessità, a richieder I'ora esatta per telefono, ci riesce persino difficile immaginare la vita in un mondo privo di orologi.

Eppure, occorre giungere al tardo Medioevo per incontrare un certo numero di orologi, abbastanza precisi, sulle torri o i campanili delle città, e ad un'epoca di molto posteriore per incontrare pendole domestiche, cronometri di marina sufficientemente precisi, e, infine, orologi portatili in quanto non troppo ingombranti.

Nelle epoche precedenti, l'esigenza di disporre di orologi, e cioè di strumenti capaci di misurare il tempo, era, naturalmente, sentita, ma la meccanica non era abbastanza evoluta per permetterne la costruzione. Esistevano le ben note clessidre, adatte a misurare brevi intervalli di tempo, ma non a fornire un'indicazione continua; candele graduate che bruciavano con regolarità, apparecchi a deflusso d'acqua, che impiegavano a vuotarsi un certo tempo, ed anche orologi solari, di difficile lettura e inadatti a fornire indicazioni su periodi di tempo brevi, a funzionare di notte e nei giorni piovosi.

Per secoli, inventori, astronomi, fisici, meccanici, tentarono per diverse vie di risolvere un problema tanto importante: immaginate una società nella quale gli orari di lavoro non si possano determinare con precisione, non sia possibile fissare con esattezza l'ora di una riunione, un appuntamento, neppure l'ora dei pasti, per non parlare della navigazione e dei trasporti.

Eppure, soltanto nel tardo Medioevo comparvero gli orologi da torre, di grandi dimensioni, discretamente sicuri ,e precisi, di struttura notevolmente complessa. Non posso citate, a tale proposito, nè nomi nè date precise: alcuni testi fissano la costruzione del primo orologio meccanico da torre al 1230 circa, altri al 1280; Dante Alighieri, nel Paradiso, e precisamente nei canti X e XXIV fa cenno ad orologi meccanici con tanto di ruote dentate, quadrante, indicatore e bilanciere.
Nel 1309 fu installato a Milano un orologio da torre, che rimase in funzione per oltre due secoli; nel 1348 fu installato sul castello di Dover, in Inghilterra, un orologio con tanto di bilanciere e scappamento a bacchetta, conservato ancora oggi in un museo.



Image may be NSFW.
Clik here to view.
L'orologio del castello di Dover
    
L'orologio meccanico, indubbiamente, fu il congegno più complesso costruito nel tardo Medioevo, e la sua importanza, per la vita pubblica, fu ovviamente altrettanto grande della sua complessità strutturale.
Nel 1500 non c'era città di una certa importanza che non avesse la sua Torre dell'Orologio, ed un incaricato della regolazione e del buon funzionamento dell'orologio stesso, regolarmente stipendiato e gratificato del titolo di "moderatore dell'orologio". Questo personaggio doveva essere munito di conoscenze di meccanica e di falegnameria, per poter operare la necessaria manutenzione e le eventuali riparazioni, ma anche di sufficienti conoscenze per riferire l'andamento dell'orologio al sole: come è ovvio, un ritardo anche piccolo, dell'ordine del minuto al giorno, se non viene compensato, dopo qualche mese porta ad uno scarto accumulato dell'ordine delle ore, nelle quali condizioni, avere o non avere l'orologio, fa lo stesso.

La struttura dell'orologio di Dover, cui faccio riferimento, trattandosi, se non erro, del più antico orologio meccanico giunto intatto fino ai nostri giorni, ci dà un'idea dell'evoluzione raggiunta dalla meccanica del tardo Medioevo. 
L'orologio consiste di un robusto telaio in ferro, che porta due grossi tamburi girevoli ed una serie di ruote dentate, sempre metalliche, con rapporti di riduzione da uno a dieci ed anche più (qualunque meccanico, anche munito di macchine moderne, sa quanto delicata sia la costruzione di ingranaggi, specialmente se tra ruota e pignone c'è una grande differenza di dimensioni). Lo scappamento dell'orologio, con tanto di ruota a corona con denti di profilo speciale, bilanciere e relativi meccanismi ausiliari, appare ancor più complesso e di difficile costruzione e controllo.

Per realizzare un simile meccanismo, era evidentemente necessario un assortimento di attrezzi ed arnesi perfezionati e specializzati: e in effetti, l'indagine storica ha messo in evidenza come nel tardo Medioevo tutta una serie di dispositivi, macchine, attrezzi, arnesi e metodi di lavorazione nuovi ed efficienti fossero ormai diffusi, ad opera di una tradizione trasmessa per via commerciale, o direttamente da una bottega artigiana all'altra, e dal mastro artigiano ai suoi apprendisti.



Image may be NSFW.
Clik here to view.
Orologio ad acqua di fabbricazione inglese
    
Il trapano ad arco, rimasto tale e quale dalla lontana preistoria, era stato sostituito gradualmente, nel Medioevo, dal trapano a collo d'oca, del tipo comunemente usato ancor oggi in falegnameria, e veniva munito, nel tardo Medioevo, di punte elicoidali, costruite per battitura e fucinatura e poi temperate. In tal modo, si ottenevano, sia nel legno che nelle lastre metalliche, fori abbastanza regolari, e con un lavoro non troppo lungo.

Il tornio per la lavorazione del legno era ormai una macchina abbastanza diffusa, azionata a pedale, con una balestra di richiamo fissata al soffitto: più tardi, il tornio divenne a movimento continuo, in un senso solo, sempre azionato a pedale, attraverso un meccanismo tipico di biella-manovella, e venne anche impiegato per tornire parti metalliche.

L'inventore, o gli inventori, del bullone, della vite e della chiave inglese, impiegati già allora come lo sono oggi, rimarranno per sempre ignoti, ma la loro invenzione era già diffusa e largamente impiegata attorno al 1300, mentre attorno al 1350 cominciarono ad impiegarsi macchine per la trafila dei metalli, primo, tra tutti il rame, ed intorno al 1400 i primi rudimentali laminatoi, per ottenerne lastre metalliche; in primo luogo, anche qui, in rame.

Ai nostri occhi di uomini del ventunesimo secolo, un mondo composto per la gran parte da analfabeti, nel quale un libro, scritto necessariamente a mano, era più raro di quanto oggi non sia, ad esempio, un autentico tappeto persiano del secolo scorso, appare perlomeno strano, e richiede uno sforzo di immaginazione per essere concepito. 
Eppure, nel Medioevo, coloro che sapevano leggere e scrivere erano una stretta minoranza, ed i libri, scritti a mano, assai rari; particolarmente nel mondo del lavoro, nelle città e nelle campagne, poco si leggeva, ed ancor meno si.scriveva. 
Gli scrivani di professione provvedevano a scrivere lettere, contratti, comunicazioni, suppliche, testimonianze; a render di pubblica ragione ordinanze, editti, notizie, provvedevano i banditori, tanto che spesso si parlava di una "grida" intendendo un'ordinanza o un editto.


Image may be NSFW.
Clik here to view.
Hartman Schedel, Liber Chronicarum (stampato a Norimberga nel 1493)

Nel primo Medioevo, anche se una maggior massa avesse voluto imparare a leggere ed a scrivere, avrebbe cozzato contro motivi strettamente economici, e cioè l'altissimo costo delle pergamene e più ancora dei libri, scritti laboriosamente a mano dagli scrivani specializzati in questo lavoro, gli amanuensi
Con I'introduzione della carta, il primo di questi ostacoli venne a cadere, in quanto il costo di questo materiale era ben più ridotto del costo delle pergamene. Ma il costo dei libri permaneva elevatissimo, continuando a costituire una barriera ferrea alla diffusione del sapere, ed in primo luogo dell'alfabetismo.

Questo secondo ostacolo cadde anch'esso, nel tardo Medioevo, con l'invenzione della stampa, i cui effetti si fecero sentire progressivamente in tutti i paesi, in tutti i campi, in tutti i settori. Gli effetti non furono naturalmente immediati, e la pratica della stampa impiegò un secolo a diffondersi in maniera capillare, ma il grande ostacolo era caduto, ed il progresso in quel senso aveva ormai la via aperta.

La stampa non fu un'invenzione 'unitaria', ma procedette attraverso tre gradini, ed una tecnica rimasta ancor oggi per la stampa di disegni d'arte: la xilografia. 
In un primo tempo, interi masselli di legno furono incisi, in modo da lasciate in rilievo il profilo dei caratteri: ogni massello permetteva di stampate una pagina. Vennero poi introdotti dei masselli che portavano un monogramma o una lettera maiuscola, ai quali si affiancarono presto completi assortimenti di caratteri singoli, che venivano riuniti in un telaio a formare una pagina da stampare; a stampa finita, la pagina veniva 'scomposta', ed i caratteri riutilizzati per un'altra, cosa evidentemente impossibile con la tecnica del massello unico per una sola pagina.

Il terzo gradino, fu l'introduzione dei caratteri metallici fusi. Questi si presentavano e venivano impiegati come quelli di legno, ossia ogni massello, evidentemente di piccole dimensioni, portava un solo carattere, una sola lettera: con un assortimento di caratteri si componeva la pagina da stampare. Il progresso consisteva nel passaggio dal carattere di legno a quello di metallo, e nel modo di ottenerlo: mentre il carattere di legno veniva ricavato con un processo abbastanza costoso di 'scultura' del massello, il carattere di metallo si otteneva gettando una lega metallica fusa entro una 'matrice', anch'essa metallica; incisa. Il costo di una matrice era certo superiore al costo di un carattere di legno, ma da una mantice si potevano ottenere centinaia di caratteri metallici, i quali, per di più, duravano molto di più di quelli in legno.

Le notizie più antiche; sulla stampa, vengono dall'Estrerno Oriente, e cioè dalla Cina e dalla Corea: sembra che già nel VI secolo si stampassero libri con la tecnica del massello unico per ogni pagina. 
Più certe sono le notizie sulla stampa a caratteri mobili: nel secolo XI in legno ed in terracotta, e dal 1390 circa, in poi, in metallo (Corea).

In Europa lo sviluppo della stampa avvenne più tardi, ed impiegò procedimenti diversi, sotto certi aspetti, da quelli cinesi, per cui rimane l'interrogativo se l'invenzione sia stata importata in Europa dall'Oriente attraverso il 'ponte' costituito dal mondo arabo, pur subendo evoluzioni e innovazioni, oppure sia stata fatta indipendentemente in Europa.

Tra i più antichi esempi di stampa, in Europa, vanno citati i masselli di legno, recanti elaborate iniziali, impiegati nel 1147 nel monastero di Engelberg, ed i caratteri, pure in legno, impiegati a Ravenna nel 1298 per stampare pagine intere. 
Il passaggio dai caratteri mobili in legno a quelli metallici avvenne tra il 1100 ed il 1400, in diversi paesi, mentre tra il 1436 ed il 1450 tutta la tecnica della stampa subì decisivi perfezionamenti a Magonza ad opera di Giovanni Gutenberg.


VEDI ANCHE . . .

STORIA DEL TEMPO



IL LAVORO NEL MEDIOEVO (The work in the Middle Ages)

Image may be NSFW.
Clik here to view.
Statuti della società dei Drappieri e Bracciaioli (miniatura del XV secolo)

La natura, negli scritti dei primi Padri della Chiesa, è il regno dell'uomo, creato immagine e somiglianza di Dio; essa merita quindi considerazione ed ammirazione, come parte del creato, e l'uomo può e deve, per rendersi migliore e più simile al Creatore, valersi di quanto la natura gli offre. Le capacità e le arti tecniche son viste come una testimonianza delle qualità superiori dell'anima.

Ecco una stralcio dal  De hominis opificio di Gregorio Nisseno (IV secolo) interessante e concreta rappresentazione dell'uomo come essere dotato di intelligenza e destinato per questo a servirsi di quanto gli offre la natura per migliorare le sue condizioni di vita ed elevarsi così al di sopra degli animali:

... "la lentezza e la pesantezza del nostro corpo richiedevano i servizi del cavallo, e questo fu addomesticato... II non poterci nutrire d'erbe rese utile alla vita il bue, che con il suo lavoro ci aiuta a procurarci il necessario sostentamento... Più forte delle corna e più acuto degli artigli è poi per l'uomo il ferro che non fa parte del nostro corpo... ma che può esser deposto dopo che ci è servito".

Ed ecco ora uno stralcio della Lode al creato di Sant'Agostino (354-430): 

".... A quali opere è pervenuta I'industria umana dei vestimenti e degli edifici! ...Quanto ha progredito nell'agricoltura e nella navigazione! Quante opere ha ideato e compiuto nella fabbricazione di ogni sorta di vasi, statue e pitture! ... Quali e quante cose ha trovate per catturare e domare le bestie, e contro gli uomini stessi quanti generi di veleni, d'armi, di macchine da guerra, quanti medicamenti ha escogitato per riparare la salute del corpo! Quanti condimenti e delizie ha prodotto pure per il diletto della gola! ...".

Anche il lavoro manuale, nel primo Medioevo, non tu più guardato con il distaccato disprezzo delle classi colte del mondo greco e romano, ma considerato e stimato. Il lavoro manuale praticato nei monasteri fin dal primo Medioevo, costituì, nel periodo che va dall'epoca di San Benedetto da Norcia (VI secolo) a quella dei francescani (XII secolo), parte essenziale delle regole degli ordini monastici: 

"Felice colui che si guadagna il pane con il lavoro delle proprie mani".... diceva San Giovanni Grisostomo (seconda metà del IV secolo).

Teofilo, monaco benedettino tedesco dell'undicesimo secolo, in un interessante scritto invita a lavorare in silenzio con le proprie mani per la gloria di Dio e per il bene di coloro che soffrono, e procede per lunghe pagine a descrivere una serie di processi tecnici e tecnologici per costruire attrezzi, arnesi e manufatti diversi, rivelando una profonda conoscenza in  materia.

Come ho accennato, nel primo Medioevo i monasteri furono anche centri di comunità agricole, ed entro alle loro mura i monaci, in attrezzate officine, producevano oggetti e arnesi diversi, molti dei quali di grande pregio. 
Ma il grande peso dato dai primi monaci al lavoro manuale fu, nell'epoca successiva, assai attenuato; basti considerare la posizione di San Tommaso d'Aquino: 

"Se uno potesse mantenersi in vita senza mangiare, non sarebbe tenuto a lavorare con le mani. Lo stesso discorso vale per coloro i quali, da altre fonti, hanno quanto occorre per poter vivere in modo lecito.
In quanto però il lavoro manuale ha per scopo di vincere I'ozio o di mortificare il corpo, esso di per sè non cade sotto I'obbligo del comandamento in quanto oltre al lavoro manuale esistono molti altri modi per mortificare il corpo e vincere l'ozio.
Da ultimo, in quanto il lavoro ha per scopo le opere di misericordia, esso non cade sotto l'obbligo di comandamento se non, alla peggio, nel caso in cui uno sia tenuto per qualche dovere a compiere delle opere di misericordia e non abbia nessun altro mezzo per aiutare i poveri.
Se quindi la regola dell'ordine non contiene particolari norme sul lavoro manuale, i religiosi non sono altrimenti obbligati al lavoro manuale che i laici".

Anche se questo passo non appare di immediata e tacile interpretazione, e, per valutarlo a fondo, andrebbe considerato assieme ad altri scritti, ne emerge chiaramente una valutazione del lavoro manuale assai diversa da quella data da San Giovanni Grisostomo o da Teofilo, e cioè di un'occupazione rispettabile, ma non certo essenziale e tale da meritare molta considerazione. 
A conferma di questo, se pur gradualmente, i monasteri cessarono ben presto di essere centri di produzione artigianale e di studio delle più avanzate tecnologie.

Come ho accennato, il cristianesimo contribuì in maniera sostanziale allo sfacelo dell'Impero Romano, diffondendo il concetto della creazione dell'uomo a immagine e somiglianza di Dio e dell'uguaglianza di tutti gli uomini di fronte al loro Creatore. 
Con il diffondersi del cristianesimo. fu facilitata e resa più spedita, particolarmente nel primo periodo del Medioevo, il superamento della schiavitù, che avvenne, come tutti i fenomeni di massa, con una certa gradualità. 
La posizione su questo punto, era ben chiara nel primo periodo cristiano, e cioè quando I'Impero Romano era ancor forte, come si deduce, tipico esempio, da un passo della Lettera ai Galati di San Paolo: 

"Non c'è nè ebreo, nè greco, nè schiavo, nè uomo libero, nè uomo, nè donna, ma siete tutti assieme uno solo in Gesù Cristo".

Meno ben definita appare la posizione dei teologi di alcuni secoli dopo, i quali tendono a considerare la schiavitù non più una palese ed inumana ingiustizia sociale, ma una posizione divina, uno stato che doveva essere sopportato con pazienza qualora il padrone rifiutasse di concedere I'affrancamento.
Tale era ad esempio la posizione dello stesso Sant'Agostino, come viene espressa chiaramente nel De Civitate Dei

"Ma anche la schiavitù imposta come pena, è soggetta a quella legge che comanda di osservare l'ordine naturale e vieta dl turbarlo. Chè se non si fosse mancato a quella legge, non si sarebbe costretti neppure per pena alla servitù. E quindi I'apostolo ammonisce anche gli schiavi che siano soggetti ai loro signori e che Ii servano con animo leggero e buona volontà...".

Comunque, con lo sfacelo dell'Impero Romano iniziò I'affrancamento degli schiavi, che procedette con lo svilupparsi delle comunità romano-barbariche nelle quali il passaggio fu graduale, ma continuo, facilitato sul piano ideologico dal retaggio della prima predicazione cristiana, e determinato, sul terreno tecnico, economico e sociale, dalla nuova struttura economica, sociale e tecnica nella quale lo schiavo costituiva già nel primissimo periodo un elemento non molto utile, sopravvissuto ad un'organizzazione sociale ormai tramontata, e in seguito un elemento inutile, o addirittura anacronistico.


VIRGILIO

Image may be NSFW.
Clik here to view.
Monumento a Virgilio - Piazza Virgiliana, Mantova
    
Fin dalle origini uomini illustri e generali romani avevano la consuetudine di circondarsi di letterati e poeti perché celebrassero le loro gesta e ne assicurassero il ricordo presso la posterità. Il valore della poesia come mezzo di propaganda e di celebrazione non sfuggì ad Augusto: la letteratura, alleandosi col nuovo regime, ne avrebbe esaltato le idealità attraverso I'arte e ne avrebbe dato una giustificazione spirituale.
Augusto e il suo consigliere Mecenate riuscirono molto bene in quest'opera di ricerca del consenso da parte dei maggiori personaggi delle lettere dell'Impero, grazie anche ad una certa generosità finanziaria (il cosiddetto mecenatismo).

Una delle maggiori figure dell'epoca augustea è indubbiamente il poeta Publio Virgilio Marone, autore del poema Eneide. 
Nacque ad Andes (odierna Pietole), presso Mantova, nel 70 a.C. 
Figlio di un agiato proprietario di poderi, Virgilio poté studiare retorica prima a Mantova e Cremona, e poi a Milano e Roma.
Ma era poco adatto per l'eloquenza e così cominciò a dedicarsi alla poesia, non trascurando i suoi interessi per la medicina, la zoologia, la botanica ecc. 
Scrisse in questo periodo le Bucoliche (42-39 a.C.), dieci egloghe (componimenti poetici di argomento pastorale), ove esaltò la vita semplice della campagna, fatta di lavori umili, di ozi e di silenzio. In seguito questo sogno agreste fu infranto dalla assegnazione dei territori di Mantova agli anziani soldati, i veterani, che comportò anche I'espropriazione dei poderi della famiglia di Virgilio. 
Questi lasciò amareggiato la terra natia e si diresse verso sud, stabilendosi poi a Roma, dove nel 39-37 riuscì a entrare nel circolo letterario di Mecenate. 
Su suggerimento di quest'ultimo si dedicò alla celebrazione dell'agricoltura e dal 37 al 30 scrisse le Georgiche, opera poetica in quattro libri. In essa si parla della coltivazione della terra nelle varie stagioni, della coltura della vite, dell'allevamento del bestiame e infine dell'apicoltura. In tutta I'opera prevale un'ammirazione profonda per la natura e la celebrazione della vita campestre contrapposta a quella cittadina.

Successivamente si ritirò in Campania e si dedicò all'elaborazione dell'Eneide, il poema epico nazionale dei Romani.
Composta da 12 libri, I'opera fu scritta nell'arco di undici anni. Virgilio, non soddisfatto, avrebbe voluto rimaneggiarla ancora, quando durante un viaggio fu colto dalla morte a Brindisi, nel 19 a.C. 

La sua salma venne trasportata a Napoli e fu sepolta sulla strada di Pozzuoli.

Grande fu I'influenza di Virgilio sulla produzione poetica posteriore e la sua fama non cadde mai in oblio, neanche nei secoli più bui del Medioevo. Dante nel XIV secolo lo scelse come guida spirituale di buona parte del suo viaggio immaginario illustrato nella Divina Commediapoiché Virgilio rappresentava la figura più viva del pensiero precristiano.

Virgilio  in un affresco dl Luca Signorelli. L'amore per la vita del campi, il senso del mistero e della realtà della vita sono le caratteristiche della sua poesia

ESPRESSIONISMO - IL FAUVISME (Matisse, Derain, Vlaminck) Expressionism - Fauvism

Image may be NSFW.
Clik here to view.
Henri Matisse (1869-1954):Odalisca.
Opera della piena 
maturità, unisce la lezione coloristica
dei fauves ad 
un'organizzazione dello spazio geometrica e rigorosa


FAUVISME

Nel 1905 un gruppo di artisti indipendenti, in polemica con la cultura del loro tempo, diedero vita al movimento del Fauvisme.
L'epiteto ironico di "fauves" (belve) venne loro attribuito dal critico d'arte Louis Vauxcelles, impressionato dai colori molto violenti e contrastanti che comparivano nelle tele dl questi artisti d'avanguardia. Il loro linguaggio, massimamente aggressivo, si basava su di un'intensa passionalità, un esasperato soggettivismo e la totale libertà del colore. 
La figura più importante del gruppo fauve fu Henri Matisse (1869-1954) attorno al quale si riunirono altri pittori francesi come Maurice Vlaminck (1876-1958), André Derain (1880-1954), Raoul Dufy (7877-1953). 
Li univa la mancanza di una linea politica e di un programma prestabilito, oltre che una spregiudicata indifferenza per il tema da dipingere.

Per Matisse il fine principale della pittura è il raggiungimento di un'armonia cosmica, cui partecipano uomo e natura, visti in un continuo ritmico divenire. Attraverso l'andamento elegante e musicale della linea, tutta ampie e morbide curve, e la fluidità del colore, puro, steso a tinta piatta, capace di generare lo spazio, Matisse rivela uno slancio vitale, una "gioia di vivere" espressi al massimo grado proprio nel quadro intitolato Gioia di vivere (1905-06).
L'ideale di Matisse era di fare dell'opera pittorica un organismo autonomo che si articolasse attraverso l'armonico equilibrio di colore, linea e forma.



Image may be NSFW.
Clik here to view.
Giardini a Chatou - Maurice Vlaminck 

Tra gli altri esponenti fauves Vlaminck è forse il più vicino agli espressionisti tedeschi per la spiccata passionalità del temperamento. I suoi paesaggi (Giardini a Chatou del 1904) sono tutta accensione cromatica e scatto emozionale.
Quanto Matisse è meditativo e logico, tanto Vlaminck appare focoso ed istintivo, fautore di una totale identità tra arte e vita. Il suo è un colore vitale, denso di energia; il segno immediato, rotto; le pennellate veloci e serpeggianti, alla Van Gogh, l'unico suo riferimento.



Image may be NSFW.
Clik here to view.
Ponte di WestminsterAndré Derain 

Derain, invece, pur scomponendo le forme nell'intensità dei colori puri, colloca costruttivamente figure ed oggetti nello spazio. L'arbitrarietà cromatica delle larghe pennellate, pastose e libere, mostra come il colore possa essere un elemento puramente espressivo anziché un mezzo per raffigurare la realtà.
Nel celebre Ponte di Westminster (1905) il paesaggio è totalmente reinventato (strada verde, alberi scarlatti, fiume e cielo giallo-oro) nella sua veste cromatica, ottenendone un'inedita e smagliante interpretazione visiva. Pur abbandonandosi alla gioia immensa del colore di pura invenzione, Derain non viene meno ad uno scrupolo di rigore costruttivo sconosciuto agli altri fauves
A partire dal 1908 egli subirà una chiara evoluzione influenzata dalla severa monumentalità di Cézanne, e l'articolata costruzione spaziale che gli è propria raggiungerà più stabili e consistenti spessori.


VEDI ANCHE ...

LUSSO, CALMA E VOLUTTÀ (1904 - 1905) Henri Matisse

LA TRISTEZZA DEL RE - Henri Matisse

FIGURA DECORATIVA SU SFONDO ORNAMENTALE - Henri Matisse

MATISSE - Museo di Santa Giulia - 11 febbraio/12 gugno 2011

LES DEUX PENICHES - André Derain


SCRITTORI POLITICI DELL'800 ITALIANO - GIUSEPPE MAZZINI (Political writers of the nineteenth century Italian)


     
Trovo sia opportuno far conoscere anche scrittori più propriamente politici che, nella prima metà dell'Ottocento, agitarono il problema nazionale, o storicamente o filosoficamente; schiera copiosa e gloriosa: della quale non possiamo che ricordare pochi nomi. 
I più di questi scrittori discendono in linea retta dall'Alfieri, di cui hanno fatto propria l'italianità, e, talvolta, l'avversione alla Francia. Conquistare coscienza di popolo, era la prima condizione per la indipendenza e per la libertà. Ed era necessario che gli Italiani sentissero la grandezza del proprio passato, per poter costruire l'avvenire.

Tra i primi alfieriani si ricordano Santorre di Santarosa, torinese: che fu l'anima della rivoluzione piemontese del 1821: dopo l'esito infelice della quale emigrò in Inghilterra, e poi in Grecia; ove morì per la libertà di quel popolo, a Sfacteria, nel 1825. 
Del nobilissimo agitatore si sono pubblicate recentemente le Speranze degli Italiani.

Suo amico Cesare Balbo, anche lui torinese. Fu soldato e diplomatico; nel '21 sperò che il principe avrebbe data la costituzione: nel'48 fu presidente del Consiglio dei ministri: e si dimise dopo Novara. Morì nel 1853. Negli anni che precedettero la sua vita pubblica, egli si dette agli studi storici, che significarono per lui conoscenza dell'anima italiana e della missione
dell'Italia attraverso i secoli. 
Da quelle meditazioni uscirono i due volumi sulla Storia d'Italia, dal tempo della invasione longobardica: la Vita di Dante (1839), che è dei libri di più fervido e ragionevole ossequio a quel primo degli Italiani: il Sommario della Storia d'Italia (1846), libro di idee più che di notizie; in cui una visione soverchiamente simpatizzante per la Chiesa non consentì all'autore un'equa valutazione degli altri elementi della nostra civiltà. 
Due anni prima si erano pubblicate le Speranze d'Italia, che furono un evento nazionale. Per la prima volta il problema italiano era pubblicamente e concretamente trattato: e, al disopra delle congiure, stava, assai più efficace, la discussione.
In ciò fu l'importanza del libro, più che nelle tesi dell'autore: la prediletta delle quali era che l'Italia dovesse mirare ad ottenere dall'Austria spontaneamente la libertà e l'autonomia, per compenso degli aiuti che essa le offrirebbe in una impresa interessante la civiltà europea e cristiana: la guerra contro la Turchia.

Un altro grande torinese fu l'abate Vincenzo Gioberti, la cui altissima speculazione filosofica non perde mai di vista il problema nazionale, anzi è come il presupposto alla sua soluzione.
Esule, dal 1833, a Parigi, e poi a Bruxelles, ove insegnò in un istituto e trovò tempo e fede per comporre le più fervide sue opere, accorse nel '48 a Torino, ove fu eletto presidente della Camera, poi ministro dell'istruzione pubblica nel gabinetto Collegno. Dopo Novara, Vittorio Emanuele lo volle nuovamente al governo. Il suo atteggiamento ostile a Mazzini lo rese odioso ai repubblicani, come ai clericali l'atteggiamento liberale. 
Mori nel 1852, a Parigi, poco più che cinquantenne; né fu estraneo alla morte prematura il gigantesco lavorio mentale. 
La produzione del Gioberti coincide quasi tutta cogli anni dell'esilio. Il Primato morale e civile degli Italiani  (pubblicato nel 1843) fu l'opera che lo rese a un tratto famoso. 
E' una esaltazione dell'Italia nel suo passato e nel suo presente: come della nazione che la provvidenza ha eletto a maestra e guida per un ritorno dell'Europa alla vita dello spirito. La salute d'Italia è per I'autore in una federazione dei vari Stati, sotto la presidenza del papato, la più italiana e più universale delle potenze. Ma il clero non rispose alla chiamata del Gioberti, che lo voleva parte viva nella rinnovazione morale e politica della nazione. I Gesuiti si opposero; e contro di essi il Gioberti scrisse il Gesuita moderno (1847), e poi I'Apologia del Gesuita moderno (1848). 
Dell'anno precedente la sua morte è Il Rinnovamento civile d'Italia: un esame degli avvenimenti del '48 e del'49, il quale conclude alla necessità della unificazione d'Italia sotto lo scettro di casa Savoia, contro l'idea federale espressa nelle opere anteriori. 
In tutt'altro campo dal politico, interessa il trattato Del Bello, strettamente connesso alla filosofia idealistica del Gioberti, che egli espose in varie opere: La protologia, o Scienza prima..., l'Introduzione allo studio della filosofia..., La teoria del soprannaturale. 
La critica gli riconosce oramai uno dei posti più eminenti nel pensiero contemporaneo.

Terenzio Mamiani della Rovere, da Pesaro, esule dopo i moti di Romagna del '31, richiamato e fatto ministro da Pio IX, nel 1860, col Cavour, ministro dell'istruzione, morto nel 1885, fu autore di Inni sacri, in versi sciolti, condotti nella maniera degli inni così detti omerici: e di molte scritti filosofici; tra cui il Rinnovamento della filosofia antica italiana (1834) è una celebrazione del pensiero e della cultura italiana di fronte al pensiero e alla cultura straniera.


GIUSEPPE MAZZINI

Ma il più eloquente ed inspirato degli scrittori politici del tempo, ed insieme il maggiore agitatore della coscienza nazionale, fu Giuseppe Mazzini. 
Nacque a Genova il 18055. La madre, austeramente religiosa, contribuì non poco all'alto senso di moralità e alle tendenze mistiche del figlio. Tra passione della poesia e della letteratura prese l'adolescente: ma, più forte, la passione dell'Italia. 
Affigliato alla Carboneria, fu arrestato e condotto nel carcere di Savona: passò poi in Corsica. La conoscenza della politica francese lo persuase sempre più della necessità che l'Italia facesse da sé. Si era già staccato dai Carbonari, francesizzanti; e fondò la Giovine ltaliasocietà di fervidi patrioti, il cui periodico di battaglia, dello stesso nome, correva, nelle più diverse e ingegnose guise, per tutta l'Italia: e in tutta I'Italia sorgevano le Congreghe. 
In Piemonte si scopersero i nuovi congiurati. Molti fucilati: Jacopo Ruffini, l'intimo del Mazzini, si uccise. Il Mazzini era a Marsiglia; tentò una spedizione in Savoia, attraverso la Svizzera (1834), fallita miseramente. 
Condannato a morte dal re di Sardegna, rimase alcuni anni in Svizzera: spiato continuamente dalla allora internazionale polizia austriaca, riparò nel '37 a Londra. Provò la miseria, e l'avvilimento; ma presto si riprese. Collaborò in giornali inglesi e fondò l'Apostolato popolareE di là suscitava i vari movimenti rivoluzionari italiani; di Bologna, del '43, dei fratelli Bandiera, del '44, (benché egli cercasse invano di dissuadere i temerari giovani dal tentativo); di Rimini, del'45. 
Spesso riusciva a comparire fra noi. Fu nel '48 a Milano, ove fondò l'Italia del popolo: nel '49 a Roma, triumviro, con l'Armellini e il Saffi, della gloriosa Repubblica difesa da Garibaldi e uccisa dalle armi francesi. Allora nuovamente riparò il Inghilterra e continuò ad eccitare le congiure: miserabile quella che condusse ai processi di Mantova e al patibolo i martiri di Belfiore (1851-53).
Penetrò in Milano nel '53, a rincuorarvi una insurrezione parimente infelice: e ancora era in Italia nel'57, e fomentava sommosse.a Genova, a Livorno, a Napoli. 
Ma se le congiure esprimevano la forma eroica dell'italianità, il continuo insuccesso di quelle persuadeva altra via: quella proclamata dal Balbo, dal Gioberti e dal D'Azeglio: di affermare apertamente i diritti dell'Italia, e di raccogliere intorno ad uno stato forte, come il Piemonte, le simpatie nazionali. Così alcuni mazziniani stessi abbandonarono il maestro. 
Alle Congreghe si sostituì la Società Nazionalefondata nel 1857 dal messinese Giuseppe La Farina, storico non degli ultimi. Il Cavour segretamente approvava. 
Così si venne alla fortunata guerra del '59, alla spedizione garibaldina del '60, e alle annessioni. Il Mazzini, tenace nelle sue idee di repubblicano unitario, apprezzatore del sacrificio anche più che del successo, rimase a poco a poco solo, e circondato da oblio e da calunnie.
Deputato di Messina nel '65, la sua elezione fu annullata dal Parlamento. L'Italia ufficiale lo riguardava ormai come un pericoloso nemico. Nel '70, nell'ultima sua venuta in Italia, fu arrestato a Gaeta. Morì a Pisa nel 1872 e fu sepolto a Genova, nel camposanto di Staglieno.

Giuseppe Mazzini fu oggetto di tenaci amori e di ingenerosi odi. Oggi sta al disopra dei partiti. Si può ancora accusare come non pratica la sua politica. Non si può non ammirare !a sua rigida concezione morale, la sua fede nell'innato eroismo delle moltitudini, la sua religione del sacrificio, la sua volontà di una Italia grande innanzi tutto spiritualmente, e per la terza volta maestra di civiltà al mondo, la sua comprensione di ogni più delicato problema dello spirito, la sua religiosità. 
Gli scritti del Mazzini sono dettati in una prosa poetica, tutta fiamme di entusiasmo. Sono per lo più lunghi articoli, pubblicati nei periodici di cui fu collaboratore o direttore. Altri furono pubblicati dopo la morte, come le Note autobiografiche, interessantissime a conoscere la storia di quell'anima, i suoi propositi, i suoi entusiasmi e gli abbattimenti. 
Giovane, fu appassionato di letteratura; e lasciò saggi notevoli: quali Dell'amor patrio di Dante, ove riecheggiano le idee del Foscolo sul poeta: Della fatalità come elemento dranamatico, in cui preludia alla nuova tragedia, non più generata dal Destino, né dal Caso, ma dalla Provvidenza..., il Parallelo tra Byron e Goethe..., la Filosofia della musica
Degli scritti politici, che sono assai più, ricordiamo la Lettera di un italiano a Carlo Alberto di Savoia (1831); Lo Statuto della Giovine Italia; alcuni articoli fondamentali per la intelligenza del pensiero mazziniano, quali Dell'unità italiana (del 1833), la Lettera ai Siciliani a proposito della rivoluzione di Palermo del '48, la Lettera al Ministero francese, in difesa della Repubblica romana, I'Ammonimento ai giovani d'Italia del 1859, dopo la delusione del trattato di Villafranca, Italia e Roma..., la Questione morale..., Agli Italiani., programma dell'ultimo giornale da lui fondato, la Roma del popolo; il saggio sulla Rivoluzione francese
Tutta la sua predicazione contro il materialismo e I'individualismo, che egli considerava come i nemici maggiori del progresso e della dignità umana, e intorno alla necessità del sacrificio, egli concluse nel libretto I doveri dell'uomo, diretto agli operai. 
Le innumerevoli Lettere del Mazzini, raccolte dopo la sua morte, sono documenti di una spiritualità e di una sensibilità ricchissima.

Altri scritti e scrittori ci riconducono al Mazzini. Del Mazzini fu intimo, e collaboratore nell'Indicatore Livornese, Carlo Bini, da Livorno, morto giovane il 1842, autore del Manoscritto di un prigioniero, strano libro di tristezza e di ironia. 

Il romagnolo Felice Orsini, affigliato alla Giovine Italia, difensore di Venezia nel '48 e di Roma nel '49, fu condannato a morte a Mantova, e poi andò esule in Inghilterra, finché, in Francia, attentò alla vita di Napoleone III, perché ancora non si era mosso in aiuto dell'Italia: e fu suppliziato il 1859. Lasciò le sue Memorie politiche (1856). 

Un pio sacerdote, monsignor Luigi, Martini, che accompagnò al patibolo quasi tutti i martiri di Belfiore, narrò le ultime giornate di quei fervidi mazziniani, in un libro semplice e commovente, cui pose il nome di Confortatorio, così era chiamata la cella della fortezza, ove i condannati si preparavano alla morte. 

Ma dei martiri precedenti narrò nobilmente la vita i pistoiese Atto Vannucci, morto il 1883, nell'opera I martiri della libertà  italiana dal 17944 al 1848.


VEDI ANCHE . . .




ESPRESSIONISMO - IL PONTE (Expressionism - The Bridge - Die Brücke)

Image may be NSFW.
Clik here to view.
Ernst Ludwig Kirchner - Mezza figura nuda con le braccia alzate - Frankfurt Städel

IL PONTE

Nel primo decennio del Novecento si affermano nuovi valori spirituali ed estetici: gli artisti prendono coscienza che l'arte non può più essere soltanto contemplazione ma comunicazione e impegno costruttivo nella volontà di incidere concretamente sulla situazione storica contemporanea. Le origini dell'espressionismo sono da ricercarsi già nelle opere di fine '800 di EnsorMunch, anche se i presupposti del movimento sono riscontrabili nella visione angosciata della realtà di Van Gogh che, avvertendo la crisi dell'unità spirituale del suo secolo, aprì la strada a quella larga corrente artistica di contenuto che è appunto l'espressionismo moderno.

Tra il 1904 e il 1905 si forma a Dresda il gruppo Die Brücke (Il Ponte) che, pur condividendo l'esigenza comune al fauves di intensa espressività, anticipa ed esprime con un più acuto senso di angoscia esistenziale il malessere profondo della società, destinato a sfociare negli eventi tragici della prima guerra mondiale e successivamente nell'avvento del nazismo. 

Questi artisti rendono quindi più denso di contenuti il proprio messaggio e, sul piano stilistico, accentuano fortemente la carica emotiva del segno. 
Animatore del gruppo fu Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938) attorno al quale si creò un sodalizio di altri artisti come Erich Heckel (1883-1970), Karl Schmidt-Rottluff (1884-1976) ed Emil Nolde (1867-1956).

Nella loro pittura si possono cogliere due diversi atteggiamenti: l'uno di aperto e violento contrasto con la civiltà borghese dell'epoca, l'altro invece di distacco e rifiuto della realtà per rifugiarsi in un'arte d'evasione. Comune a questi due filoni è comunque la volontà di rappresentare non più il mondo esterno ma l'universo interiore dell'artista, il suo modo di sognare e di pensare. Per arrivare a ciò è necessario deformare violentemente la realtà, stravolgendone le immagini e comunicando attraverso un colore non naturale, ma denso d'implicazioni psicologiche, una intensa carica emotiva e simbolica, spesso portata sino al parossismo.

Gli espressionisti tedeschi cercano la liberazione dell'uomo dando pieno sfogo a quelle emozioni trasgressive, istintive ed irrazionali che la cultura del tempo tende a controllare e a schiacciare. Si battono pertanto contro il lavoro industriale, inesorabilmente predeterminato in ogni sua fase, poiché lo ritengono la causa prima dell'infelicità dell'uomo moderno.

Rappresentante dell'architettura espressionista fu Erich Mendelsohn (1887-1953) che si oppose alla tendenza razionalista e funzionalista, rifiutando ogni geometria. Nella sua Torre Einstern, a Potsdam, crea una drammatica contrapposizione di pieni e di vuoti, modellando l'edificio quasi come se fosse una scultura.

Appartengono al filone della pittura espressionista Oskar Kokoschka (1886-1980), Egon Schiele (Tulln 1890-Vienna 1918), George Grosz (Berlino 1.893-1959), Otto Dix (1891-1969) e Max Beckmann (1884-1950), riuniti questi ultimi nel gruppo della Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit) e autori di opere satiriche di drammatica denuncia della situazione sociale negli anni precedenti il nazismo.

Per l'ampiezza di contenuti culturali, sociali e politici nonché per il carattere rivoluzionario, l'espressionismo si diffuse rapidamente in molti paesi d'Europa tra cui l'Italia.
In tal modo, più che un semplice "movimento artistico", divenne una chiave di interpretazione sofferta della realtà, che ritroviamo anche in alcuni artisti famosi dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri (Henry Moore, Graham Sutherland, Francis Bacon).


VEDI ANCHE ...

ARTE ETRUSCA - PITTURA - SCULTURA - ARCHITETTURA - ARTI MINORI (ETRUSCAN ART - Painting - Sculpture - Architecture - Arts Minor)

Image may be NSFW.
Clik here to view.
Cartina con i maggiori centri etruschi,
ed "espansione" della civiltà etrusca nel corso dei secoli

L'ITALIA ETRUSCA

Nonostante la civiltà etrusca sia stata studiata sin dal XVIII secolo ancor oggi si discute sulle origini di questo popolo: se ci domandiamo infatti chi fossero veramente gli Etruschi non sappiamo dare una risposta definitiva. Il fatto che fino a pochi anni fa la più grande civiltà preromana si presentasse a noi con il volto affascinante ma, al tempo stesso, cupo ed enigmatico del culto funebre, ha contribuito non poco ad alimentare quell'alone di mistero che da sempre grava sugli Etruschi. Solo in tempi recentissimi gli studi e le ricerche archeologiche hanno dissolto ogni dubbio sul presunto isolamento culturale in cui si credeva fosse vissuto questo popolo nell'Italia antica. I contatti spirituali, culturali e storici con altre popolazioni a loro contemporanee si sono fatti sempre più evidenti, cancellando così l'immagine del mondo etrusco venuto dal nulla e cresciuto in uno splendido e misterioso isolamento.

Fin dall'antichità sono fiorite numerose ipotesi circa l'origine degli Etruschi: alcuni sostenevano una loro provenienza dall'Asia Minore, dalla Lidia (Erodoto) o forse anche da regioni più interne; altri (Dionigi di Alicarnasso) li ritenevano invece originari del territorio nel quale abitavano. Largo credito tra gli etruscologi ha oggi l'opinione che questa civiltà sia stata il risultato del convergere di varie correnti di migrazione, fuse etnicamente con le realtà indigene.

Comunque sia, è certo che il popolo etrusco compare in Italia nell'VIII secolo a.C.: dopo aver occupato la regione del Lazio settentrionale e della Toscana, si spinge presto a sud, in Campania (Cuma e Pompei) . La presenza etrusca appare inoltre ben documentata anche in Umbria (Orvieto e Perugia), in Emilia-Romagna (Marzabotto, Bologna e Spina) e Lombardia (Mantova).
L' organizzazione politica degli Etruschi si articolava in città, rette da capi locali e legate tra loro da rapporti federativi e vincoli religiosi. La civiltà etrusca si dislocò quindi in numerosi centri urbani, ciascuno con un proprio territorio, caratterizzato da forme specifiche dell'attività artistica e culturale. 
Tipica è la collocazione di alcuni grandi abitati (Cerveteri, Tarquinia, Vulci) non affacciati direttamente sul mare, come le colonie fondate dai Greci, bensì posti nell'immediato entroterra, sicché ciascuno era servito da uno o più centri sussidiari di carattere portuale.

Un centro situato sulla costa era invece, più a nord, Populonia, particolarmente valorizzata, come mostrano le nuove scoperte, dall'attività mineraria connessa allo sfruttamento del ferro proveniente dall'isola d'Elba.

Le città, specie quelle dell'Etruria meridionale, che si sono rapidamente inserite nel flusso dei commerci marittimi, vedranno il periodo di maggior fioritura tra il VII e il VI secolo a.C.

La straordinaria scoperta a Pyrgi di tre lamine d'oro scritte in etrusco e in punico ci dimostra l'esistenza di uno stretto rapporto tra i due popoli. Alleati con i Cartaginesi, gli Etruschi manterranno per alcuni secoli il dominio del Tirreno infliggendo ai Greci un notevole scacco nelle acque corse di Alalia nel 540 a.C. La decadenza di questo popolo inizierà dopo la sconfitta navale di Cuma (474 a.C.) in parallelo alle prime vittorie dei Romani.

Gli Etruschi, dopo aver perso l'accesso all'Italia meridionale, si ritirano nei territori del Nord: inizia così una fase di conversione dall'economia mercantilistica a quella agraria basata sul latifondo. Nel II - l secolo a.C. non vi sono più in Etruria città autonome; la civiltà etrusca verrà totalmente assorbita quando i capi delle famiglie ancora superstiti dopo le stragi di Silla a Chiusi e di Ottaviano a Perugia si trasferiranno a Roma. Qui si amalgameranno definitivamente ai Romani, accettandone la lingua, le leggi e il potere.
Si dissolve dunque anche quest'ultimo elemento del "mistero" etrusco, ossia la leggenda che vuole questo popolo scomparso nel nulla, mentre appare evidente che seguì il destino comune a molti altri gruppi etnici, confluiti nello Stato romano vincitore e unificatore della penisola italica.

Nostra principale fonte di conoscenza sugli Etruschi resta la produzione artistica ed artigianale che si caratterizza per la spiccata componente greca, specie nella prima fase, oltre che per l'apporto orientale e per l'elaborazione autonoma ed originale di vivace tono popolaresco. 
La pittura funeraria, la scultura a tutto tondo e a rilievo, la bronzistica, gli oggetti di oreficeria, la ceramica lavorata in forme varie e raffinate appaiono le più significative manifestazioni artistiche di questa civiltà.


LA PITTURA

Mentre le città di Vulci, Cere e Veio eccellono soprattutto nella scultura, Tarquinia si distingue per una scuola di pittura qualitativamente superiore a quella di tutti gli altri centri etruschi. 
Le celebri tombe di Tarquinia hanno un interesse artistico eccezionale: contengono infatti le uniche pitture antiche che possediamo degli Etruschi. Eseguite generalmente a fresco su di un sottile strato di intonaco (dopo la preparazione di un disegno a graffito), esse si sviluppano dal VI al I secolo a.C., dimostrando una forza vitale, un'arguzia, un senso decorativo e coloristico notevoli.

Le scene di vita domestica (Tomba del Triclinio, Tomba dei Leopardidi giochi e feste funebri (Tomba degli Auguri), di caccia e di pesca (Tomba della caccia e della pescaci restituiscono intatta la visione di un'esistenza gioiosa e serena. 
Allorché però l'orizzonte politico iniziò ad oscurarsi in relazione alla guerra con Roma anche il linguaggio pittorico espresse il senso di angoscia incombente, come ben appare nelle raffigurazioni della Tomba dell'Orco (lV secolo a.C.) e della Tomba del Tifone (ll - l secolo). 
Qui la concezione dell'aldilà diviene paurosa e terrificante, imperniata sulla mostruosità: compaiono sulle pareti demoni alati (Charun e Tuchulcha) e creature infernali, pronti a uccidere a proprio piacimento la vita umana, sottolineando così l'inesorabilità delle leggi che governano l'Ade.


LA SCULTURA

L'unico artista etrusco di cui le fonti ci conservano il nome è Vulca, autore degli acroteri (elementi ornamentali del frontone) e delle statue di culto in terracotta del tempio capitolino a Roma e dei gruppi fittili del tempio di Portonaccio a Veio.
Queste terrecotte, oltre a confermare le antiche notizie sulla attività di una scuola particolarmente fiorente alla fine del VI secolo a.C., diedero per la prima volta la documentazione di una statuaria etrusca di grandi dimensioni.

Proveniente dal gruppo raffigurante Eracle in lotta con Apollo per il possesso di una cerva, originariamente collocato sulla trave centrale del tempio del Portonaccio, è la famosa statua di Apollo (510-490 a.C.). 
Di evidente derivazione da modelli greci (ionico-dorici), l'opera presenta elementi tipici del gusto etrusco come rivelano la straordinaria vitalità della dinamica falcata, lo scatto del polpaccio e l'espressione animalesca, quasi ferina, del viso.
La grande maestria degli scultori di Cere raggiunge una finezza eccezionale nei famosi Sarcofagi (in realtà urne cinerarie) cosiddetti degli Sposi, raffiguranti una coppia di coniugi sul letto da convito, di cui ci restano i due splendidi esemplari custoditi al Louvre (Parigi) e al Museo di Villa Giulia a Roma. 
In questo capolavoro della plastica fittile (cioè della scultura in argilla) del VI secolo sono evidenti gli intenti dell'artista impegnato a rendere gli straordinari contrasti tra le superfici levigate delle membra e della kline e il minuto gioco dei panneggi con le pieghe tubolari. 
Fanno spicco le teste, dal cranio allungato, i lineamenti spigolosi e le linee dure e taglienti degli occhi a mandorla e dei contorni del volto.

Tra le opere etrusche più celebrate e più belle si ricordano le due sculture bronzee della Lupa capitolina (Roma, Museo dei Conservatori, fine del VI secolo a.C,) e della Chimera di Arezzo (Firenze, Museo Archeologico, 380-350 a.C.).
Comune alle raffigurazioni dei due animali è un misto di realismo e stilizzazione (asciuttezza del corpo, ciocche schematiche della criniera), oltre ad una ricerca di forza espressiva rivelata dal minaccioso atteggiamento delle fiere.


ARTI MINORI

Fibule, collane, bracciali e altri splendidi gioielli provenienti da principeschi corredi funebri (eccezionale quello della tomba Regolini-Galassi, VII secolo) testimoniano un livello di civiltà elevatissimo e il lusso della classe benestante. 
La tecnica di lavorazione a rilievo e granulazione è detta anche a pulviscolotanti piccoli granuli d'oro accostati e saldati su di una lamina aurea a comporre figure e motivi di effetto ornamentale. 
Già conosciuta a Creta e nella Grecia d'età geometrica ed orientalizzante, questa tecnica acquista con gli artigiani etruschi particolare raffinatezza e suggestione. 
Colpisce lo stile barbarico di questi preziosi monili che, accanto a forme geometriche astratte, presentano anche elementi iconografici desunti da una fantasia zoomorfa (ossia da un repertorio di immagini leggendarie di animali) tipicamente orientale: grifi, mostri, pantere, leoni, sfingi, serpenti.

Allo stesso modo gli oggetti in avorio (dadi, manici di flabelli ecc.) confermano i contatti commerciali ha l'Etruria e I'Oriente.

Tipici della zona di Chiusi sono i canopi, così chiamati per la vaga somiglianza con gli omonimi recipienti egiziani contenenti i visceri del defunto. Si tratta di urne cinerarie (od ossari) in bronzo, in terracotta o in bucchero, chiuse da un coperchio a forma di testa umana.
Talvolta anche il vaso assume la forma di busto umano grazie all'applicazione di braccia mobili alle anse (manici con la tipica forma ad S).
Interessa notare soprattutto la stilizzazione potente con cui sono rese le fisionomie delle persone incinerate.


L'ARCHITETTURA

Di recente un insieme di scoperte sensazionali ha fatto emergere testimonianze relative alle città e ai palazzi in cui risiedevano gli Etruschi, contribuendo a gettare nuova luce su di un capitolo ancora sconosciuto o quasi della storia di questo popolo. 
Gli scavi compiuti a Murlo, Poggio Civitate (Siena), Acquarossa, Musarna (Viterbo), Satrico (Latina), Roselle (Grosseto) hanno fatto riemergere suppellettili e materiali architettonici e scultorei utili alla ricostruzione della struttura e dell'arredo delle case etrusche. 
Uscita finalmente dal buio dei sepolcreti, la civiltà di questo popolo inizia a rivivere negli aspetti più immediati dell'esistenza quotidiana. 
Per quanto concerne l'architettura religiosa, dalle descrizioni romane sappiamo che i templi etruschi erano simili al tempio greco prostilo e rivestiti di terrecotte colorate. 
Statue decorative di notevoli dimensioni erano poste sui montanti del frontone e sul culmine del tetto, molto largo, lungo la trave portante, appesantendo notevolmente l'intera struttura, poco elevata in altezza. 
Si trattava dunque di una architettura dalle proporzioni tozze e dalle coperture grevi. 
Il frontone, originariamente vuoto, venne chiuso con lastre decorate ad altorilievo solo a partire dal III secolo a.C., e in età ellenistica sarà completamente occupato da grandi composizioni unitarie in rilievo policromo. 
Le colonne etrusche, di tipo tuscanico derivante dal modello delle prime colonne doriche, presentano base rotonda, fusto non scanalato (ossia liscio, privo dei caratteristici incavi longitudinali) ed echino (parte del capitello dorico, a forma di cuscino) rigonfio.


Image may be NSFW.
Clik here to view.
Ricostruzione e pianta di un tempio etrusco. Costruito su un alto basamento, con basse colonne, evocava le forme del tempio dorico; ma era più largo che lungo ed era diviso in due parti, di cui I'anteriore aperta e porticata


VEDI ANCHE . . .




ARCHITETTURA ROMANA - I Fori - Il Teatro - Il tempio - Architettura privata - Città e Territorio (ROMAN ARCHITECTURE - Forum - Theater - Temple - Architecture Private - City and Territory)

Image may be NSFW.
Clik here to view.
COLOSSEO (Anfiteatro Flavio) è il più grande edificio destinato agli spettacoli gladiatori. Con i diametro tra i 188 e i 156 metri e un'altezza di quasi 50, poteva contenere 50.000 persone

ITALIA ROMANA
  
CARATTERI DELLA ARCHITETTURA

L'architettura romana deriva i suoi elementi strutturali dai motivi dell'architettura greca, combinati con le creazioni originali del popolo etrusco: I'arco, la volta, la cupola.
Soltanto nel II secolo a.C., quando Roma si è ormai imposta come potenza egemone in tutto il Mediterraneo, la città inizia a regolarizzare ed abbellire il foro (piazza principale con funzioni amministrative, commerciali e politico-religiose) con le basiliche (Porcia, Fulvia-Emilia e Sempronia), i rostri, la Curia senatoria.

La basilica è una struttura generalmente a pianta rettangolare, con o senza portico esterno su uno dei lati lunghi; internamente divisa in tre navate, e spesso munita di un'abside semicircolare sul lato più breve di fondo. 
Questi edifici, che servivano per l'amministrazione della giustizia e le varie riunioni inerenti alla vita civica, rivestiranno in seguito grande importanza per lo sviluppo della tipologia basilicale cristiana.

I rostri (così definiti per la presenza di trofei di guerra, gli speroni delle navi conquistate nelle guerre puniche) erano tribune per gli oratori.

Nella Curia si riuniva il Senato, cento propulsore della vita romana.

Si gettano altresì in questa fase repubblicana i primi ponti in muratura: l'Emilio (142 a.C.l e il Milvio (109 a.C.).

Un'architettura esiste quindi prima di una scultura e di una pittura romana.

Le costruzioni precedentemente citate sono infatti tutte opere di pubblica utilità, realizzate in pietra, tufo e terracotta, materiali che davano alla città un aspetto ben diverso da quello degli splendidi centri greci o dell'Asia Minore, candidi di marmi, folti di colonne, regolari e scenografici.

Sobria e austera, l'architettura romana, a differenza di quella greca, non si pone questioni di semplificazione e di unità stilistica, poiché i suoi obiettivi sono diversi, tesi soprattutto all'utilità.

Il sistema costruttivo romano era basato sulla tecnica cementizia laterizia. 
L'impiego delle concrezioni, cioè di una specie di cemento molto resistente ottenuto con malte e frammenti di pietrisco o di cotto, si diffuse subito in tutto il mondo romano per la facile ed economica applicazione, e la possibilità di ottenere coperture voltate inattuabili con la tecnica lapidea.

Il muro romano, di mattoni e di piccole pietre tenute insieme dalla malta (opus caementicium, opera a secco) , non ha una funzione eminentemente strutturale, ma è inteso come elemento che separa e racchiude gli spazi, come divisione e guscio, ossia mezzo per ottenere degli ambienti. 
Infatti, diversamente da quella greca, che è arte dei ritmi scanditi, che fanno da cornice a elementi figurati e concepiti sopra un piano verticale, l'architettura romana è arte degli spazi, sia di quelli interni, sia di quelli esterni, creati dai rapporti fra i vari edifici.
 All'interno i romani creeranno ambienti e volumi spaziali sempre più ampi, stabilendo in tal modo, sin dal I secolo d.C., i precedenti dell'architettura medievale europea.



Image may be NSFW.
Clik here to view.
Porticus Aemilia

Fondamentale per tale tendenza è la copertura a volta, che si basa sulla struttura dell'arco e permette da parte dei costruttori la realizzazione di murature curve in mattoni cotti.

Il primo impiego dell'arco in una grande costruzione utilitaria in Roma è documentato dalla Porticus Aemilia. Oltre che nelle porte, nei ponti e negli acquedotti, l'arco diventa ora un elemento architettonico a sé stante, come sostegno di statue onorarie. 
Questa funzione continua ad essere assolta anche dalla colonna con statua.
Tipico in particolare dell'architettura augustea, l'arco romano ha origine da quello etrusco, cui sono aggiunte forme di derivazione classica, come il timpano e le colonne ai lati del fornice (come è detta l'apertura centrale).

L'arco e la colonna sono posti in posizione isolata, perché rispondono a intenti celebrativi ed esornativi.
In genere l'arco di trionfo, spesso riccamente decorato con sculture, è posto all'ingresso della città (arco di Traiano a Benevento) o all'inizio di una via importante (arco di Augusto a Rimini), ed assume significati sia propagandistici sia storici (arco di Costantino a Roma). 



Image may be NSFW.
Clik here to view.
Colonna di Traiano - Roma

L'architettura è quindi intesa come, strumento per dimostrare là potenza e la ricchezza di Roma, mentre la scultura serve a celebrare, eternandola nel marmo, la gloria delle battaglie vittoriose, o la figura e I'operato di cittadini illustri. 
L'arte può cioè diventare strumento di governo, ed in questo caso è sempre legata ad un contesto di attualità storica (ad esempio la campagna di Dacia raffigurata sul fusto della colonna di Traiano di Roma).

La produzione artistica romana non appare mai gratuita, cioè rivolta a fini di godimento estetico, se non nell'ambito dell'artigianato di lusso (ad esempio la glittica), dove però è sempre congiunto un fine celebrativo, se non altro della potenza sociale e quindi economica del committente.

L'età augustea produce una vera e propria arte di corte, raffinata ma gelida. In questo periodo l'architettura è chiamata a dare un volto più monumentale alla nuova capitale: il marmo sostituisce il tufo e il travertino (pietra calcarea), sicché l'imperatore può vantarsi di aver trasformato in una città di marmo la Roma repubblicana di terracotta e mattoni.



Image may be NSFW.
Clik here to view.
Ricostruzione dell'Ara Pacis. Voluta in onore dl Augusto (9 a.C) riprende la struttura delle antiche are sacrificali. Il monumento, interamente scolpito, ha alla base motivi floreali sovrastati da una processione di notabili
     
Tra le principali realizzazioni augustee è l'Ara pacis (altare della pace), recinto marmoreo riccamente decorato, consacrato il 9 a.C., che racchiude un altare votivo.

Solo al tempo di Nerone (54-68 d.C.) si ebbe una svolta decisiva nell'architettura romana, le cui ripercussioni si fecero sentire in tutto l'impero. 
Nella sua Domus Aurea (casa d'oro), costruita dagli architetti Severus e Celer (64'68 d.C.), vengono sfruttate tecniche, prima sperimentate in senso solamente strutturale, per realizzare nuove immagini architettoniche come quella della famosa Sala Ottagona, vasto spazio interno coperto da una superficie concava, entro il quale la presenza umana riceve una collocazione particolare di subordinazione ad una struttura maestosa.

In questo periodo nell'architettura lo spazio interno si svilupperà in forme grandiose e destinate a durare negli edifici di carattere ufficiale.
Le invenzioni dell'architettura neroniana, interpretate però con una maggiore coerenza formale e libertà inventiva, si ritrovano nel Palazzo di Domiziano sul colle Palatino, dove le sale erano incredibilmente sviluppate in altezza quasi a rendere esplicita la nuova concezione della divinità del sovrano.



Image may be NSFW.
Clik here to view.
La Domus Aurea si trova ancora sotto le rovine del Terme di Traiano 

Con Traiano abbiamo la splendida fioritura, unitaria ed organica, di un'arte imperiale paragonabile a quella del periodo di Pericle in Grecia. 
L'imperatore volle una serie di grandi imprese monumentali realizzate da uno dei più grandi artisti che ebbe l'antichità: il "maestro delle imprese di Traiano".

Col successore di Traiano, Adriano, l'arte muta indirizzo.

L'attività edilizia di Adriano fu grande, quasi frenetica, ed il tempio di Venere e Roma (rimasto incompiuto alla morte dell'imperatore) tra Colosseo e foro romano ne rappresenta il documento più grandioso e drammatico.

La pianta della Domus Aurea, costruzione in mattoni con decorazioni orientaleggianti voluta da
Nerone; a fianco, lo schema del foro di Traiano.



I FORI

Image may be NSFW.
Clik here to view.
Foro Romano visto da Palazzo Senatorio

Giulio Cesare decise di ampliare lo spazio ormai insufficiente del vecchio foro romano (di età monarchica) costruendone uno nuovo, a partire dal 51 a.C., di lato al primo e sotto il colle capitolino. Al centro di una larga piazza fiancheggiata da ampie botteghe fu eretto il tempio di Venere Genitrice, di tipo greco, in marmo, con colonne molto ravvicinate.



Image may be NSFW.
Clik here to view.
 Tempio di Venere Genitrice - Roma

Image may be NSFW.
Clik here to view.
Foro di Cesare


Image may be NSFW.
Clik here to view.
Foro di Augusto

Al foro di Cesare s'aggiunge quello d'Augusto, inaugurato nel 2 a.C.: esso non ebbe però carattere pratico e commerciale, ma monumentale e celebrativo. 



Image may be NSFW.
Clik here to view.
Schema del foro di Traiano
Completa la serie il grande foro di Traiano, creato dal maestro delle imprese di Traiano, forse identificabile con Apollodoro di Damasco, architetto ed ingegnere militare.



IL TEATRO 

A differenza del teatro greco quello romano non sfrutta un declivio naturale del terreno, perché per poterlo inserire al centro della città lo si costruisce in muratura.
La cavea, grazie alla tecnica cementizia delle volte a botte, è costruita artificialmente con corridoi anulari, e con una facciata curvilinea scandita da più ordini di arcate inquadrate da semicolonne o lesene. 



Image may be NSFW.
Clik here to view.
Il teatro di Marcello accanto al tempio di Apollo Sosiano, dai piedi del Campidoglio

Dall'unione di due cavee romane affrontate nasce I'anfiteatro, per spettacoli gladiatori gratuiti. 
Tra gli anfiteatri più noti ricordiamo il teatro di Marcello, iniziato da Cesare e compiuto da Augusto (11 a.C.) e il Colosseo (anfiteatro Flavio), grandiosa struttura funzionale e monumentale ad un tempo, costruita ha il 70 e l'82 d.C. su ordine di Vespasiano.



IL TEMPIO 

La tipologia del tempio romano deriva dal modello etrusco e successivamente da quello greco, seppure reinterpretati nella chiave di una nuova destinazione funzionale. 
Il rito religioso è infatti considerato alla stregua di un evento collettivo, di una cerimonia pubblica che chiama a raccolta tutti i rappresentanti della società, dal popolo alle più alte autorità. Per questo davanti al tempio si apre un vasto spiazzo libero destinato ad ospitare anche un folto uditorio, ed è sempre per questo che il tempio viene rialzato da un basamento slanciato (podio) che conferisce all'edificio una dimensione monumentale, capace di valorizzarne l'imponenza architettonica agli occhi delle folle che vi si adunavano. 
Anche la facciata è fatta oggetto di una sempre'maggiore elaborazione architettonica, che ne esalta la grandiosità e la suggestione scenografica.



ARCHITETTURA PRIVATA

In una città come Roma, a capo di un immenso impero, destinata rapidamente a svilupparsi nel corso dei secoli sino a raggiungere la dimensione di una megalopoli con più di un milione di abitanti (lll secolo d.C.), grande importanza ebbe l'edilizia abitativa. 
L'esistenza di diversi tipi di case riflette la suddivisione del tessuto sociale in ceti di notevole disparità, dal più ricco al più povero, presenti su di uno stesso suolo urbano.

Le abitazioni romane erano di tre tipi: le insulae..., le domus...., e le villae.

Le insulae sono grandi caseggiati a quattro o più piani con appartamenti d'affitto, cui si accedeva attraverso ripide scale.
Attorno ad un cortile centrale interno erano disposte su ogni piano le stanze; a piano terreno si trovavano i negozi. 
Ogni insula (nella Roma imperiale ne esistevano circa 44.000) era delimitata da quattro strade.

Le domus (apprezzabili soprattutto negli esempi di Ercolano e Pompei) sono invece case signorili unifamiliari con molte stanze, costituite da un atrio e un cortile colonnato interno su cui si affacciano gli ambienti.


Image may be NSFW.
Clik here to view.
Villa Adriana a Tivoli

Le villae, grandi residenze di imperatori o ricchi patrizi, erano situate in campagna. 
Non presentavano tipologia fissa, ma erano sempre costituite da serie coordinate di edifici (parte signorile e rustica, a loro volta integrate da ulteriori ambienti: teatro, biblioteca, ninfeo, tempio, con vasche e giardini).
Splendido esempio è la Villa Adriana a Tivoli (120-138 d.C.), straordinario complesso di costruzioni fatte edificare dall'imperatore Adriano, che evocano nei nomi monumenti da lui ammirati durante i viaggi compiuti nelle province (Serapeo, Canopo, Accademia, Pecile ecc.).



CITTA' E TERRITORIO

Per uno Stato conquistatore come quello romano l'organizzazione dei territori annessi e la costruzione di nuove città sono questioni d'importanza vitale. Su tutto il territorio dell'impero viene tracciata una fitta rete di strade, mai esistite prima, che convergono su Roma, oltre a ponti, acquedotti e linee fortificate.
I terreni vengono suddivisi in moduli quadrati, con una griglia di strade secondarie: i decumani, paralleli all'arteria principale, e i cardini, perpendicolari ad essa, in modo da realizzare lotti quadrati di circa 700 metri di lato. 
Si tratta di un primo esempio di piano regolatore su scala regionale.

Anche gli accampamenti militari (castra) e I'abitato delle nuove città erano impostati in questo modo, cioè su questo sistema di assi ortogonali. 
Grazie alle foto aeree ancor oggi si può riconoscere l'origine romana di una città proprio per la
presenza di una maglia regolare di strade perpendicolari che delimitano isolati quadrati o rettangolari (Parigi, Vienna, Londra, e quasi tutte le città italiane).

Le città romane avevano un unico modello organizzativo che prevedeva tre funzioni diverse: servizi, localizzati nelle zone centrali (templi, terme, teatri, mercati e foro) ; la comunicazione sociale (archi di trionfo, colonne celebrative, vie imperiali); le abitazioni (case collettive e unifamiliari). 
Questo modello è stato portato dai Romani ovunque, in tutto il mondo da loro conquistato.



Image may be NSFW.
Clik here to view.
Panoramica delle Terme di Caracalla


CENTURIAZIONE

Centuriazione (da centuria, misura di superficie corrispondente a 200 "iugeri" o a cento "heredia") è un termine usato per definire quella particolare divisione regolare delle campagne praticata in età romana, più o meno sistematicamente, in ogni regione dell'Impero.
Questa pratica, che i Romani definivano "limitatio" (cioè definizione di confini) o anche "centuriatio" era utilizzata generalmente allo scopo di dividere il terreno agricolo pubblico in regolari poderi quadrati o rettangolari da assegnare a singoli proprietari. Questo metodo consisteva nella stesura di un reticolo di tracciati imperniati su due assi perpendicolari fondamentali: il "cardo maximus" e il "decumanus maximus". Su questa maglia di tracciati, all'incrocio di ognuno dei quali erano posti cippi, erano organizzati funzionali sistemi di irrigazione dei terreni e di collegamento viario; la fortuna di questa organizzazione è stata tale da garantire la conservazione delle centuriaziori spesso fino ad oggi, come ad esempio nella pianura padana ed in Tunisia. 
Alla realizzazione delle centuriazioni era addetta una categoria di professionisti detti "agrimensores" o "gromatici" (dalla "groma", lo strumento usato per realizzare assi perpendicolari); questi, organizzati stabilmente nel I secolo a.C. da Cesare, dovevano avere nozioni di cosmologia, astronomia, geometria e legislazione. Alcuni dei più importanti manuali e trattati di agrimensura furono raccolti intorno al V secolo d.C.


VEDI ANCHE . . .

VILLA ADRIANA - Tivoli

IL COLOSSEO o ANFITEATRO ROMANO - Roma

IL COLOSSEO - Jean Baptiste Corot

IL FORO ROMANO - Roma

IL PANTHEON - Roma



LA BEFANA - Disegni da colorare (EPIPHANY - Coloring Pages)

LUIGI DOTTESIO - Patriota italiano (Italian patriot)


LUIGI DOTTESIO

Luigi Dottesio (Como, 14 gennaio 1814 – Venezia, 11 ottobre 1851) è stato un patriota italiano, molto attivo nella diffusione di opuscoli antiaustriaci e d'ispirazione mazziniana, prima e dopo il 1848. Intercettato dai gendarmi a Maslianico, mentre cercava di passare clandestinamente la frontiera svizzera, venne giustiziato dagli Austriaci a Venezia, nel 1851.

L'8 ottobre 1851 gli austriaci impiccavano a Venezia Luigi Dottesio "condannato a morte per essere stato l'agente in Italia della tipografia Elvetica di Capolago".

Luigi Dottesio era nato nel 1818 a Como, dove aveva frequentato gli studi liceali per poi impiegarsi presso quel Municipio. La sua prestanza fisica (praticava l'equitazione, la scherma ed altri esercizi) Io aveva fatto scegliere a venti anni come araldo della sua città per presenziare a Milano all'incoronazione di Ferdinando d'Austria: unico giovane di famiglia non nobile che partecipò a quella manifestazione.

Con altri giovani Dottesio comincia ad organizzare riunioni segrete, in cui si stringono le fila di un'embrionale organizzazione cospirativa; i convenuti si esercitano alle armi ed al tiro, per prepararsi altre prove future, in una sala d'armi fuori Cernobbio, vicino alla villa dell'arciduca Ranieri, e ciò serve a stornate i sospetti.

Fu nel 1842 che in una riunione a Capolago, alla quale partecipava Dottesio, venne deciso di acquistare la locale tipografia Elvetica e di trasformarla in un centro di edizione di libri patriottici, già proibiti in Italia o che in ltalia non si sarebbero potuti stampare. 
Alessandro Repetti fu I'editore: "Occorrevano abili compositori"... scrisse nei suoi ricordi ..."e Dottesio me li mandò da Milano. Non era cosa facile! La polizia austriaca negava loro il passaporto, gli operai dovevano oltrepassare il confine con mille astuzie". 

Dottesio fungeva da organizzatore, diffusore, procuratore della tipografia, infaticabile ed accorto nei suoi spostamenti. 
Condusse a Capolago Massimo D'Azeglio (e così videro la luce gli Ultimi casi di Romagna), Guerrazzi (ed ecco la 2a edizione dell'Assedio di Firenze, con la dedica a Mazzini). 
Da Capolago i libri affluivano in Italia attraverso una ben congegnata trafila si incaricavano di passarli oltre frontiera le gentili dame di Cernobbio, o gli "spalloni" (i contrabbandieri) della montagna; da Como arrivavano con l'imperiale diligenza a Milano, e qui erano smistati in sicuri depositi presso alberghi, osterie, indirizzi privati, da cui riprendevano il viaggio per le ulteriori destinazioni.

Nel 1847 Dottesio e Repetti sono a Roma, per offrire l'intera collezione delle edizioni di Capolago. 
Nel 1848 Dottesio guida i volontari ticinesi alla guerra d'indipendenza; è delegato di Como presso la colonna Arcioni, cerca di aiutare i garibaldini in difficoltà. 
Esuli illustri si raccolgono dopo l'armistizio a Capolago, da Cattaneo a Ferrari, a Mazzini. 
Nel 1849 Dottesio torna a Roma; segue poi Garibaldi nella ritirata e, tra i pochissimi, riesce a raggiungere Venezia.

Il moto nazionale sembra fallito; ma proprio in questo frangente Dottesio pensa al futuro e raccoglie a Capolago molti documenti ufficiali dei Governi provvisori italiani (dalla Lombardia alla Sicilia, dall'Italia centrale a Venezia). 
L'ora di Dottesio suona la sera dell'Epifania del 1851. 
Alla frontiera di Chiasso una comitiva attesa dai patrioti viene bloccata; Luigi, generoso e spericolato come sempre, parte subito per superare l'imprevista difficoltà; ma la gendarmeria lo attende al varco, lo arresta, lo trascina a Como in catene.

Invano gli amici tentano di salvarlo, corrompendo il carceriere. La trama è scoperta ed il prigioniero trasferito a Mantova. Negli interrogatori Dottesio, incrollabile, nega ogni complicità di terzi, tace nomi di amici della trafila. 
Dopo nove mesi di prigione, la sentenza, l'esecuzione. 
Ferrari (in una lettera da Parigi dello stesso ottobre 1851, pubblicata da Della Peruta) scrive: 

"La morie di Dottesi (sic) e la situazione di Repetti mi straziano. Ratetzki ha piantato la forca dinanzi a Capolago". 

Nel marzo 1853 la tipografia Elvetica priva del suo animatore, chiude.


La tipografia Elvetica di Capolago, vicino a Lugano.
                                                

I BARABBA

Image may be NSFW.
Clik here to view.
Fucilazione degli insorti del 6 febbraio 1853
(Illustrazione di Edoardo Matania)

I "BARABBA"

Negli anni dal 1850 al 1853 una grave crisi colpì I'economia italiana ed europea in generale e, in particolare, quella lombarda. Questa grave crisi colpì non solo le campagne, ma anche le città, e soprattutto Milano, dove era raccolta la nascente industria. Questa aveva un carattere, nel complesso, arretrato, ancora settecentesco, ma a Milano esistevano complessi industriali con diverse centinaia di operai. Ora, fra il '51 e il '53, queste industrie cittadine e, pertanto, anche gli operai furono colpiti dalla grave crisi, che provocò scarsità di lavoro e, di conseguenza, peggioramento delle loro condizioni; alla mancanza di lavoro si aggiunse il rincaro eccessivo dei generi alimentari di prima necessità.

Anche la borghesia soffriva per la crisi economica che non l'aveva affatto risparmiata. La borghesia aveva precisa coscienza di questo fatto ed i rimedi che tentava lo dimostravano chiaramente. Chiedeva, anzitutto, al governo austriaco I'allargamento del mercato con una saggia ed adeguata politica di accordi commerciali e di leghe doganali con gli altri Stati della penisola e senza posa avanzava l'esempio del vicino Piemonte, in cui una politica liberistica consentiva un fervore di opere ed uno sviluppo delle forze industriali sconosciuti alla Lombardia. 
Ma la crisi di quegli anni traeva le sue origini anche dall'eccessivo carico tributario imposto dall'Austria per sfuggire alla imminente minaccia di fallimento.
Il ceto borghese fremeva degli arbitrii dell'Austria e covava sotto sotto una sorda ribellione dovuta al fatto che il regime austriaco violava tutte le sue aspirazioni, che si riassumevano particolarmente nel desiderio di una maggior libertà di movimenti: ma, d'altra parte, motivi profondi di dissenso lo dividevano anche dalla classe lavoratrice, verso cui avrebbe voluto attuare una politica energica di repressione. Insomma agivano su di esso due esempi, quello della politica liberistica del Piemonte e l'altro della politica antioperaia di Napoleone III, esempi che riteneva adatti ad una maggiore espansione dell'attività industriale. 
Ma sia I'uno che l'altro, però, erano tali da metterlo in contrasto con gli operai e, pertanto, si può capire la sua scarsa partecipazione al moto del 6 febbraio, data la prevalenza assunta nella organizzazione clandestina e nell'insurrezione stessa dai popolani.

Più volte Giuseppe Mazzini ebbe a dichiarare che la preparazione del moto milanese del 6 febbraio 1853 era stata opera esclusivamente dei popolani, di quelli che i rapporti di polizia definirono come la più "vile feccia" della popolazione. Gli operai si raccoglievano a cospirare soprattutto nelle osterie, dove avevano sempre l'aiuto degli osti, che erano spesso anche dei capi della congiura. 
Il Pollini nel suo libro sul 6 febbraio ci dà un lungo elenco di queste osterie, alcune delle quali poi furono oggetto di particolare attenzione da parte della polizia, senza, però, che venisse scoperto nulla: le osterie dell'Iseo portofranco, del Paradiso a Porta Vigentina, della Portalunga in via Broletto, della Cassoeula a Porta Tosa, della Riviera presso Porta Comasina, ecc.
 I popolani erano divisi per compagnie, ciascuna dell'e quali comprendeva gli appartenenti ad una stessa arte, o ramo di industria: ad esempio della compagnia A facevano parte i facchini, della B i falegnami, della C i calzolai, della F i facchini ed i carbonai, i cosiddetti tencitt, e via dicendo. 
E lo stesso Pollini riferisce una canzone che i tencitt cantavano:

"Amici, alla fabbrica
allegri andiamo:
corriamo, dei popoli
la lega facciamo.
E' questo iI momento
del nostro cimento;
amici, alla fabbrica
allegri andiamo".

Una bella canzone che esprime una ingenua fiducia nell'avvenire ed anche uno spontaneo senso di solidarietà fra i popoli.


Image may be NSFW.
Clik here to view.
L'osteria milanese della "Cassoeula", fuori Porta Tosa, ora Porta Vittoria
(Dipinto di A. Fermini)

Ingenua fiducia nell'avvenire: ed effettivamente il continuo sviluppo dell' organizzazione e le prove sempre più ardite che gli operai avevano dato o che avevano il coraggio di tentare, erano tali da far nascere veramente quella fiducia. 
Il 25 giugno l'uccisione della spia Vandoni aveva gettato lo spavento fra gli austriaci ed i loro seguaci per la rapidità con cui eta stata eseguita, per la segretezza da cui era stata circondata. E poi ancora alcune dimostrazioni, fra cui la partecipazione di cinque o seicento persone ad una messa funebre nell'anniversario del supplizio dei fratelli Bandiera, avevano rivelato la forza notevole raggiunta dall'organizzazione operaia.

L'organizzazione, come si vede, era limitata alle classi popolari, poichè il ceto medio e l'alta borghesia si erano ritirate ed avevano rinunciato ad una decisa azione contro gli austriaci. Forse agiva su di essi il timore di rendere più aspre le rappresaglie austriache soprattutto di natura economica: confische, sequestri di beni, ecc.

Per questi ed alti motivi, di cui ho parlato sopra, la borghesia si tenne lontana dalla organizzazione clandestina rivoluzionaria operaia che, indubbiamente, si trovò di fronte ad una svolta decisiva quando il Mazzini si accorse della sua forza e decise di prendere contatto con essa per influenzarla e dirigerla verso i suoi intenti politici. 
E' il Mazzini stesso che lo dice: 

"La parte popolana [...], che nel '47 i migliori dicevano incapace di fare e che diede una solenne smentita ai ragionatori, quella parte, vuol fare. Quando mi fui convinto che non erano semplici ebollizioni di taverna, ma concetti che avevan del serio, stimai debito mio l'accostarmi e, nel caso in cui persistessero dare aiuto quanto poteva".

E più chiaramente nel suo scritto sulla insurrezione:

"S'era formata spontanea, ignota a noi tutti, nel 1852 in Milano una Fratellanza segreta di popolani, repubblicani di fede e con animo deliberato di preparare l'insurrezione e compierla. Non s'era rivolta per aiuti e consigli ad abbienti o letterati; non aveva cercato contatti con noi, aveva prima voluto essere forte".

Un'attività cui si dedicava specialmente l'associazione operaia era quella della diffusione di manifestini, che aveva condotto all'arresto ed alla condanna a morte di Amatore Sciesa: erano piccoli foglietti di carta, stampati, ma spesso scritti anche a matita che venivano incollati con la mollica sui muri e, di preferenza, sulle porte delle chiese, in quanto si sperava che potessero sfuggire all'attenzione della polizia, dato anche che, in genere, iniziavano con le parole: "Avviso sacro".

Le testimonianze sono, come abbiamo visto, concordi nel dire che l'organizzazione degli operai aveva raggiunto, agli inizi del '53, una certa consistenza ed una discreta forza.
Eppure nel pomeriggio del 6 febbraio, tra le 4,30 e le 5, quando ebbe inizio l'insurrezione, il numero dei congiurati che si riuscì a raccogliere fu di gran lunga inferiore a quelle diverse migliaia di cui si era prima parlato: in tutto qualche centinaio di uomini. 
Lo scoppio del moto era stato preceduto da un certo fermento dei popolani, e ne sentiamo un'eco in queste affermazioni che un oste fece alla polizia: 

"Anzi qui mi torna opportuno di deporre che la domenica 6 febbraio p.p. circa verso le ore due pomeridiane, entrò nel negozio una compagnia di sette od otto individui che io vedeva per la prima volta, perciò tutta gente estranea alla mia osteria, di una classe più bassa di quella che solitamente ci aveva, tutti in generale malvestiti, e questi vi vollero una stanza separata, che li venne da me fornita; poi si chiusero in quella, come perchè non venissero sentiti i loro discorsi... [corre allora ad avvertire l'ispettore di polizia, il quale, tuttavia, venuto, non trova nulla di sospetto e lascia quegli individui liberi]. Partito però l'Ispettore anche coloro se ne partirono. E fu appunto sull'atto della loro partenza che io osservai addosso ad altro di coloro un triangolo o lima di falegname, di qualche dimensione ed acuminato".

Ma, con tutto ciò, la partecipazione al moto degli operai fu piuttosto scarsa tanto che I'insurrezione dovette suddividersi in tanti episodi isolati e parziali, in cui ebbe grande rilievo il coraggio individuale dei popolani (che non esitarono, ad esempio, ad assaltare la Gran Guardia del Palazzo Reale, pur essendo soltanto una ventina di uomini), ma che non poteva avere, fin dall'inizio, alcuna probabilità di successo.

Per tutta la città fu una caccia ai soldati austriaci isolati o in pattuglia, fino a quando l'effervescenza sfociò nella costruzione di barricate, che la classe operaia sperava potessero rinnovare i miracoli del '48. 
In un Rapporto giornale del 7 febbraio del R. Commissario di Polizia del I Circondario è detto: 

"Nella impossibilità di potere in un rapporto descrivere minutamente ogni fatto, parvemi bastante I'accennare che i riottosi e loro aderenti pure l'infima classe del popolo [i barabbahanno tentato di rinnovare le scene sanguinose e rivoluzionarie del 18 marzo 1848, mentre già in alcuni luoghi furono erette barricate e si valeva anche del campanile della chiesa di S. Subino stata invasa da un branco di quei malfattori per suonare a stormo; ciò che non è riuscito, essendo fuggito il custode di detta chiesa".

Il grande coraggio di questi barabba destò ammirazione in tutti gli storici che hanno parlato dell'episodio e l'Austria si vendicò della paura che, per un momento, aveva di nuovo provato, erigendo sedici forche: sedici martiri che vennero ad aggiungersi alla lunga schiera dei morti per la Patria. 
Ma è chiaro che un problema storico molto importante ci rimane da affrontare, se possibile, da risolvere: come mai dalle diverse migliaia di congiurati del periodo precedente il 6 febbraio si passò, poi, alle poche centinaia di attivi partecipi alla insurrezione? 

"La causa principale [del fallimento], scriveva lo stesso Mazzini il 20 febbraio, è stata il fatale dissenso della classe media; la colpevole condotta dei nostri migliori repubblicani appartenenti a quella classe. Essi sostennero fino all'ultimo che il popolo non avrebbe potuto o voluto prendere l'iniziativa. E si tennero in disparte. Se vi fossero stati cinquanta del loro nucleo, pronti a mettersi a capo, anche nel caso che fallissero tutti i coups de surprise, l'iniziativa si sarebbe mutata in una regolare guerra di barricate; e ventiquattr'ore d'una guerra simile avrebbe fatto muovere tutte le città della Lombardia; e il movimento lombardo sarebbe stato il movimento italiano".


Image may be NSFW.
Clik here to view.
 Milano - Lapide a Giuseppe Piolti de Bianchi
   
Limpida figura di patriota, Giuseppe Piolti De' Bianchi (nato a Como il 25 ottobre 1825 - morto a Milano il 3 novembre 1890), combatté nelle Cinque Giornate di Milano, partecipò nell'anno successivo alla difesa di Roma, rientrò clandestinamente a Milano verso la fine dell'anno e fece uscire, firmando con lo pseudonimo di "Eugenio Minta", il periodico La solitudine, che lo soppresso il 20 febbraio 1850; dopo qualche mese Piolti De' Bianchi fece uscire il giornale La società (costituito dalla fusione de La solitudine con la Domenica del Cesana) e, poi, dopo la soppressione di questo,  La Fenice, a sua volta subito soppressa. 
Nel settembre del 1852, tramite Benedetto Cairoli, Giuseppe Mazzini gli affidò la direzione del Partito a Milano. Nel gennaio del '53 si incontrò con Mazzini a Lugano e tentò dissuaderlo da un'azione insurrezionale, che gli pareva intempestiva.  Decisa, invece, l'insurrezione per il 6 febbraio, egli fu attivo nel movimento preparatorio e nell'infausta giornata, tentando, inutilmente, tutto quanto fosse possibile perchè il moto non fallisse. Restò, dopo la sconfitta, nascosto a Milano, donde il 5 maggio, sospettando che il suo rifugio fosse stato scoperto, riparò a Stradella.
 La direzione del Partito a Milano rimase affidata ad Ambrogio Ronchi e Piolti De' Bianchi, da Torino, fu tramite attivissimo fra Milano e Londra, ma, scoperta la sua attività dovette, dopo un periodo di carcere, ritirarsi sul Lago Maggiore nel Canton Ticino, e di lì prosegui la sua opera.





Menù Natalizi - Valle d'Aosta


Menù Natalizi - Valle d'Aosta




Esistono tanti modi per dire Natale, ed è proprio in questo periodo dell’anno che ogni zona d’Italia da il meglio di se per celebrare questa ricorrenza rispolverando antiche ricette che fanno parte della tradizione locale. Ogni regione con la sua memoria, la sua storia , il suo territorio, a Natale propone menù ricchi e deliziosi che con la loro bontà contribuiscono a rendere ancor più bella questa festa.

In Valle d’Aosta il pranzo di Natale viene aperto con vari antipasti tipici della zona:
il dolcissimo lardo con le castagne cottela nocetta ( carne secca) adagiata sui crostini al miele, la fondutainsaporita col tartufo servita sempre con crostini.

Il primo è composto da una zuppa alla Valpellinentzepreparata con verza, cavolo, fontina, cannella,  noce moscata, brodo e pane raffermo.

Il secondo tradizionalissimo piatto è la “Carbonale” (vedi ricetta)

Naturalmente non c’è Natale senza i dolci, ecco allora che la tradizione valdostana offre molte leccornie tra cui le pere sciroppate servite con crema di cioccolato e panna montata e le classiche tegole (frollini secchi preparati con mandorle e nocciole) che accompagnano egregiamente ilcaffè mandolà (fatto con caffè, mandorle, burro e zucchero).





CARBONADE

Ingradienti per 4 porzioni:

800 grammi di polpa di manzo (io consiglio lo scamone)
100 grammi di burro
2 cipolle
1 spicchio d’aglio
2 foglie d’alloro
2 foglie di salvia
2 rametti di rosmarino
farina bianca
1 litro di vino rosso
sale e pepe

Tritate finemente insieme l’aglio la salvia e l’alloro
Tagliate la carne a pezzi e mettetela in un recipiente con le erbe tritate, il sale e il pepe.
Riponete il tutto in frigorifero e lasciate riposare per una giornata.
Prendete una teglia e dopo aver infarinato la carne rosolatela nel burro.
Togliete la carne dalla teglia, tritate la cipolla e fatela rosolare nel burro della carne.
Quando la cipolla si sarà ammorbidita rimettete la carne nella teglia , salatela e pepatela , copritela con il vino e continuate la cottura a fuoco bassissimo per minimo due ore.
Servitela con polenta.


Buon appetito!!!


Menù Natalizi - Friuli Venezia Giulia


Menù Natalizi - Friuli Venezia Giulia



    
Nel Friuli Venezia Giulia la tavola natalizia e tradizionalmente composta da una serie di portate di pesci, frittura, sgombri, bisate (anguilla), e sardele.

I triestini, per la cena della vigilia, non rinunciano al risoto co’ i caperzoli (arselle) e neppure alla pasta co’ le sardele salade, e dopo lo scoccare della mezzanotte, quando l’imposizione del digiuno è terminato, vengono servite le fumanti trippe friulane.

Il maialino al forno è il protagonista della tavola del 25 anche se a volte viene sostituito dalla tacchinella ripiena, mentre in alcune località si prepara l'ottima brovada e muset, ossia, una gustosissima zuppa di rape e cotechino  accompagnata da una fumante polenta

E come dolce, sulle tavole delle valli del Natisone, ma non solo, ecco apparire la gubana (vedi ricetta), non c’è modo migliore di deliziare il palato magari irrorandola con slivoviz un tipico  liquore di prugne.
    
GUBANA

 Ingredienti per 6 porzioni:

1 confezione di pasta sfoglia rettangolare
125 g di gherigli di noce
70 g di uva sultanina
60 g di pinoli
30 g di mandorle pelate
50 g di pan grattato
50 g di burro
35 g di cedro candito
30 g di scorza di arancia candita
1 limone
1 arancia
2 uova
vino marsala
noce moscata
cannella in polvere
1 cucchiaio di zucchero


Mettete in ammollo l’uvetta sultanina ne vino marsala.
Tritate insieme noci e mandorle, unite la scorza grattugiata di limone e arancia, i canditi, i pinoli, l’uvetta strizzata e date ancora una bella tritata generale.
Unite il pangrattato fatto prima soffriggere nel burro, la noce moscata, lo zucchero e la cannella.
Mescolate bene il tutto e aggiungete un tuorlo e un albume montato a neve.
Stendete la sfoglia, distribuiteci sopra il ripieno, e formate colo rotolo ottenuto una spirale.
Spennellate la superficie con il tuorlo dell’altro uovo e spolverizzate con lo zucchero.
Cuocete per 45’ in forno a 190°C
Servitela fredda


Buon appetito e….mandi mandi…..


Menù Natalizi - Piemonte


Menù Natalizi - Piemonte




In Piemonte il menù natalizio si apre con un trionfo di antipasti tradizionali: il batsoà (zampini di maiale fatti prima bollire e poi fritti); la finanziera, sostanzioso piatto a base di carne, animella di vitello, creste di gallo e fegatini di pollo; i capunet (vedi ricetta); il vitel tonnè e le acciughe al verde.

Tra i primi non possono assolutamente mancare fumanti zuppiere di agnolotti al plin ( ovvero il pizzicotto) conditi col sugo dell’arrosto e i classici ravioli.

Il Cappone di Morozzo al forno è invece il grande protagonista del pranzo del 25 insieme al gran bollito di bue grasso di Carrù e Moncalvo.
Naturalmente non possono mancare le verdure in bagna cauda.

Per quanto riguarda i dolci imperdibile la mousse di mele rosse Igp, la torta di nocciole e zabaione e il torrone d’Alba.


Image may be NSFW.
Clik here to view.
Capunet


CAPUNET

Ingredienti per quattro persone:

400 grammi di avanzi d’arrosto o in alternativa del macinato fresco
1 tazza di latte
2 fette di panacarré
100 grammi di Parmigiano reattuggiato
200 grammi di mortadella in un’unica fetta
3 uova
8 foglie di verza
1 piccola cipolla
1 mazzetto di prezzemolo e maggiorana
2 spicchi d’aglio
Sale e pepe
Abbondante olio di arachidi

Mettete in ammollo il pancarré nel latte
Scottate le foglie di verza in acqua bollente salata e una volta tolte dall’acqua stendetele su un canovaccio
Tritate in modo grossolano la carne e la mortadella
Unite al trito il pane ammorbidito nel latte, le erbe e l’aglio tritati finemente, le uova, la cipolla e il formaggio grattugiato
Sistemate di sale
Sistemate il composto ottenuto sulle foglie di verza e arrotolatele
Fissate il fagottino con filo da cucina
Friggete in olio

La mortadella può essere sostituita con prosciutto o salame
La cottura può essere fatta anche in forno avendo l’accortezza di cospargere di pane grattugiato i fagottini


Buon appetito!!!



I segreti del panettone - Panettone farcito di gelato e melagrana


I segreti del panettone - Panettone farcito di gelato e melagrana



Milanese quanto la Madonnina e i Navigli, oggi il panettone è uno dei dolci natalizi più apprezzati in ogni regione. Amato (o odiato dai nemici di uvetta e canditi) e onnipresente sulla tavola delle feste, è il protagonista assoluto, per qualche mese, sugli scaffali dei supermercati. I panettoni industriali, subito dopo il 25 dicembre (e a volte anche prima), costano quasi meno del pane. Un affare? Non proprio: quando si sceglie un panettone, infatti, la prima cosa da controllare non è il prezzo, bensì l’etichetta. Il valore del panetùn, infatti si misura nei suoi ingredienti. Altrettanto importante è la sensazione al tatto, ossia la consistenza della pasta sotto le dita: deve essere morbida e non gommosa, con una trama omogenea.

Meno gli ingredienti sono pregiati e più scende il prezzo: per questo l’etichetta è importante. Qui trovate farina, uova, burro, zucchero, lievito, uvetta e canditi. State attenti all’ordine, che indica la loro presenza in quantità decrescente: lo zucchero è il prodotto meno costoso, quindi se ce n’è troppo significa che si è risparmiato sugli altri ingredienti. Per esempio si sono usati uova in polvere ( i produttori non sono obbligati a indicarlo) oppure oli idrogenati (margarina) al posto del burro. Questo può invece essere sostituito, mantenendo inalterata la qualità, da panna o siero di latte congelato.

Un ruolo di spicco lo ricopre il lievito: il migliore è quello naturale (detto anche pasta madre). Ottenuto dall’acidificazione di acqua e farina, sviluppa diversi tipi di saccaromiceti che, fermentando, migliorano la consistenza e la digeribilità della pasta, proteggendola inoltre dai batteri.

Preparato con cura e con i giusti ingredienti il panettone non avrebbe bisogno di conservanti: è infatti un prodotto caratterizzato da una forte stagionalità, che ha un ciclo di vita breve. Una volta aperto, se avanza, non deve essere lasciato all’aria perché non perda la sua fragranza: va conservato dunque nel suo sacchetto o in una scatola di latta.

Tra gli ingredienti non dovrebbero esserci neppure coloranti (per renderlo più giallo, se sono state usate poche uova) o aromi, che danno quel profumo che ingredienti di scarsa qualità non sanno creare.

Il tocco finale è dato dai canditi (arancia o cedro, anche se non è obbligatorio segnalarlo in etichetta e alcune aziende usano la zucca, più economica) e dalle uvette. Per chi non li ama sono state ideate variati che tolgono o aggiungono in gradienti come il cioccolato o creme, “strappi alle regole” che soddisfano il palato. E in fondo è questo, lo scopo di un dolce di festa: inutile quindi stare a guardare le calorie!



E ora una ricetta semplice e di grande effetto:

PANETTONE FARCITO

DI GELATO E MELAGRANA


tempo di preparazione 20’ + il tempo di riposo

Ingredienti per 8 persone:

1 panettone di circa 1 kg

1 kg di gelato alla vaniglia

3 melagrane

100 g di pistacchi tostati e tritati

zucchero a velo, per decorare

Tagliate una fetta spessa 2 cm alla base del panettone e tenetela da parte (servirà per chiudere il dolce a fine preparazione).

Sempre dalla base, svuotare il panettone: ritagliare un cilindro con un lungo coltello, lasciando 2 cm dal bordo, ed estrarre la soffice pasta interna.

Aprite le melagrane e sgranatene i chicchi; riunitene i 2/3 in una ciotola con il gelato, il pistacchio e mescolate; tenete da parte un poco del composto e inserite il rimanete all’interno del panettone; compattate la farcia con il dorso di un cucchiaio bagnato.

Spalmate la farcia rimasta sulla fetta di panettone tenuto da parte e usatela per chiudere il fondo.

Avvolgete il panettone nella pellicola e mettetelo in freezer per almeno 4 ore.

Togliete il panettone farcito un’ora prima di servirlo; tagliatelo a fette e disponetele nei piatti; decorate con i chicchi di melagrana rimasti e spolverizzate con zucchero a velo.






Ambraliquida bagnogel - L'Erbolario


Ambraliquida bagnogel - l'Erbolario


Possiedo un centinaio di campioncini di prodotti detergenti e di bellezza, alcuni trovati in riviste, altri mi sono stati donati in farmacia, in profumeria e in erboristeria, altri li ho richiesti direttamente alle ditte produttrici, una piccola collezione di cui sono gelosissima anche se in realtà non me ne faccio niente.

Secondo il mio parere i campioni di crema per il viso contengono troppo prodotto mentre quelli di crema corpo e bagnoschiuma troppo poco.

Ma perché vi sto raccontando questa cosa , vi chiederete voi, ve la racconto perché oggi, dopo aver letto un parere su un sito di opinioni sul bagnogel Ambraliquida, mi è venuto in mente che nella mia scatola delle meraviglie c'era proprio un campioncino di questo bagnoschiuma, così per la mia doccia serale ho deciso finalmente di utilizzarlo.

La quantità contenuta nella bustina sarà equivalsa sì e no a un cucchiaio di un liquido denso e ambrato, non basterà mai, mi sono detta, invece è bastato eccome!

L'ho versato sulla spugna bagnata e man mano che la passavo sul corpo si formava una morbida e profumatissima schiuma che mi ha immediatamente trasportata negli hammam turchi dove il gorgoglio dell'acqua, i vapori e i profumi della rosa e dell'ambra stordiscono i sensi....

Esagerata? forse un pochino sì, o più probabilmente è la voglia di vacanza che mi fa sognare ad occhi aperti, comunque vi garantisco che la fragranza di questo bagnoschiuma è davvero gradevolissima.

Anche se all'inizio l'essenza prepotente dell'ambra potrebbe apparire eccessiva dopo alcuni minuti il profumo che si avverte è lieve, delicato e per niente stucchevole.

Che dire poi della morbidezza della mia pelle dopo questa doccia di bellezza, merito delle Microsfere di Vitamina E contenute nel prodotto che contribuiscono a mantenere la cute elastica e vellutata, e dell'olio di Sesamo che con le sue proprietà lenitive combatte l'eccessiva secchezza della pelle, tanto da non ho neppure avvertito la necessità di usare la mia solita crema idratante dopobagno.


Liquidambar Orientalis
Ma da dove arriva questo prezioso profumo? Il Liquidambar orientalis è un albero da cui si ricava lo Storace, una resina scura e aromatica che da sempre viene utilizzata per profumare gli ambienti e per curare e proteggere l'epidermide, sembra inoltre che spalmare sulla pelle prodotti al profumo di Storace prima di andare a dormire possa favorire le nostre capacità oniriche.

Di seguito pubblico l'INCI per chi ci tiene a sapere cosa mette sulla propria pelle, io sinceramente non indago più di tanto, mi fido di questo marchio e l'uso dei suoi prodotti non mi ha mai causato spiacevoli reazione nonostante abbia la cute molto sensibile.

INCI :
Aqua, Sodium Lauroyl Sarcosinate, Acrylates Copolymer, Profumo, Coco Glucoside, Caprylyl/Capryl Glucoside, Sodium Lauryl Sulfoacetate, Liquidambar Orientalis Resin Extract, Sodium Sesamphoacetate, Sodium Cocoyl Wheat Amino Acids, Potassium Cocoyl Pca, Tocopheryl Acetate, Agar, Alginic Acid, Glycerin, Disodium Laureth Sulfosuccinate, Polysorbate 20, Peg 4 - Aminomethyl Propanol, Butylphenyl Methylpropional, Citronellol, Coumarin, Geraniol, Ci 77891, Phenoxyethanol, Potassium Sorbate, Sodium Benzoate.

Che altro aggiungere se non che il mio prossimo acquisto Erborario sarà proprio questo bagnogel che viene venduto al costo di 9,50 euro per 250 ml di prodotto... e magari mi regalo anche l'acqua di profumo e la crema per il corpo.... ma sì dai che poi faccio bei sogni!




Pubblicato da Marianna S. a 14:45

ARTE ROMANA - Il ritratto - Il rilievo storico - La pittura (ROMAN ART - The Picture - The historical importance - Painting)

Image may be NSFW.
Clik here to view.
La statua di Augusto di Prima Porta (8 a.C), anticamente
posta dinnanzi la villa della moglie dell'Imperatore, Livia

IL RITRATTO

Nell'arte romana la scultura assolve funzioni soprattutto celebrative, e ciò si ripercuote nella scelta dei temi, prevalentemente storici. Personaggi reali, quali imperatori, uomini illustri o ricchi patrizi, sostituiscono gli stereotipi (il faraone, lo scriba, l' offerente, l'atleta, il portatore di lancia...) ricorrenti nella scultura degli antichi imperi orientali e della Grecia.

Solitamente si ritiene che la principale creazione dell'arte romana sia stata il ritratto. Ciò non è esatto: le splendide serie di ritratti di età romana non sono infatti che una continuazione, in diverse condizioni di ambiente e con diverse esigenze, della grande arte ritrattistica ellenistica. 
Ciò che è nuovo nel ritratto romano è la sua grande diffusione e il suo carattere privato, legato a particolari tradizioni delle famiglie patrizie, che custodivano in ogni loro ramo i ritratti degli antenati, e per lungo tempo ebbero - uniche - il diritto all'immagine. 
Il ritratto quindi, specie quello funerario, deriva da tali effigi, maschere in cera tratte dal volto stesso del defunto, e testimonia l'elevato rango sociale raggiunto dalla gens (status di patrizio).
Accanto a queste manifestazioni private di tipo familiare (che hanno alla base la tradizione etrusca) si sviluppa il ritratto ufficiale (di origine greca) , onorario ed imperatorio, del princeps inteso come imperator, comandante militare (ad esempio l'Augusto di Primaporta, 8 a.C.). 
Questa netta distinzione è particolarmente evidente nei due ritratti dell'imperatore Vespasiano: mentre nel primo (Copenaghen, Glyptoteca Ny Carlsberg) , l'imperatore appare come un vecchio militare di origine plebea, dai tratti grossolani e volgari, nel secondo i tratti distesi ed il tono aulico gli conferiscono un aspetto intellettuale e distinto.

Particolarmente fortunato è il tipo del ritratto equestre, del quale rimane uno splendido esempio nella statua del Marc'Aurelio a cavallo in piazza del Campidoglio a Roma, cui si ispireranno gli artisti del Rinascimento.



Image may be NSFW.
Clik here to view.
Hermes a riposo - Villa dei Pisoni a Ercolano

IL RILIEVO STORICO

L'esigenza di lasciare un'immagine duratura delle proprie imprese è sempre stata particolarmente sentita dagli imperatori: nel rilievo storico romano abbiamo la narrazione di un fatto di interesse pubblico, di carattere civile o militare, legato all'esaltazione di una gloria da tramandare ai posteri. La celebrazione di una guerra vittoriosa è argomento abituale dell'arte romana, e la sua rappresentazione si cristallizzerà in alcuni temi fissi: partenza, costruzione di strade, ponti o fortificazioni, offerta di un sacrificio agli dei, allocuzione, battaglia, assedio, atto di sottomissione dei vinti, ritorno e corteo trionfale, atti di beneficenza.
Attraverso questa tematica l'artista riceve una norma entro la quale inserire volta a volta quelle varianti che richiamavano con particolari caratteristiche i luoghi o gli avvenimenti, puntualizzando e storicizzando la raffigurazione. Questa diveniva in tal modo facilmente comprensibile, esplicita a chiunque, anche a prima vista.

Particolarmente significative sono in quest'ambito le colonne coclidi (dal latino coclea, chiocciola) e gli archi (in quello di Tito i rilievi decorano l'interno del fornice, in altri anche
l'attico).

Se consideriamo soprattutto pittura e scultura (cioè le arti più propriamente figurative) appare evidente che il valore dell'arte romana risiede soprattutto nella sua aderenza alla storia.



Image may be NSFW.
Clik here to view.
 Teseo e il Minotauro - Pompei


LA PITTURA

La pittura romana deriva i suoi temi e i suoi modi di rappresentazione dalla pittura etrusca (naturalismo, vivacità cromatica e scene rituali) e dalla pittura ellenistica (soggetti mitologici, brani di vita quotidiana).
II grande archivio della pittura romana risiede nelle città della Campania distrutte dall'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.

La decorazione parietale è divisa, secondo una classificazione proposta dagli studiosi, in quattro stili, di cui il primo, chiamato stile ad incrostazione o strutturale (in quanto finge decorazioni marmoree) , è in uso fino all'inizio del I secolo a.C. (casa sannitica ad Ercolano).

Il più antico esempio del secondo stiledetto architettonico, è conservato nella casa dei Grifi sul Palatino (100 a.C.). Presenta finte colonne dipinte sulla parete, con accenno prospettico. 
A Pompei ricordiamo soprattutto la villa dei misteri (l secolo d.C.) celebre per la raffigurazione di riti dionisiaci.


L'ultima fase del secondo stile è rappresentata nella casa di Livia dalla parete detta del tablino, nella cui sintassi decorativa si inserisce una grande apertura al centro e due aperture minori ai lati, secondo uno schema tratto dalle scene teatrali.

Il  terzo stile, detto ornamentale (sala nera della casa della Farnesina a Roma, 30-25 a.C.), si distingue per la prevalenza dei valori disegnativi su quelli plastici.

Con quello che è stato detto quarto stile, o stile fantastico, si accentua sempre più, dopo la parentesi del terzo stile, la tendenza all'illusione prospettica, mediante lo sfondamento delle pareti con finte architetture e vedute. In particolare questo gusto prospettico, che diviene tal volta esasperato, riprende in pieno verso il 60 d.C. (Domus Aurea), e si fa addirittura fantastico e sovraccarico di ornamenti.


VEDI ANCHE . . .

VILLA ADRIANA - Tivoli

IL COLOSSEO o ANFITEATRO ROMANO - Roma

IL COLOSSEO - Jean Baptiste Corot

IL FORO ROMANO - Roma

IL PANTHEON - Roma







LE ORIGINI DELL'ARTE (Origin of art)

Image may be NSFW.
Clik here to view.
Profilo di un toro su roccia nella grotta di Lascaux in Dordogna

IL PALEOLITICO E IL NEOLITICO

È solo da poco più di un secolo che le manifestazioni artistiche della preistoria sono state valutate sotto una luce positiva. Dalle prime scoperte casuali (come quella della grotta di Altamira, in Spagna, nel 1879) si passò ad indagini sistematiche che permisero di giungere ad una prima classificazione e datazione dei manufatti.



Image may be NSFW.
Clik here to view.
Particolare della grotta di Altamira

L'uomo primitivo, portatore di una cultura ben più evoluta di quanto si fosse sino ad allora immaginato, usava le caverne non solo come dimora o rifugio, ma anche come luogo di culto, nel quale si svolgevano riti propiziatori per le cacce. E in questo ambiente che le immagini, tracciate sulle pareti con nerofumo e sostanze vegetali, oppure graffite (in rari casi anche scolpite in altorilievo) si caricano di una magica forza evocativa: gli animali (bisonti, cervi, cavalli, tenne, mammuth, stambecchi) sono dominati, feriti, catturati.

Oltre ad Altamira va ricordato anche il grande complesso di Lascaux in Dordogna, ed in Italia la grotta dell'Addaura nel Monte Pellegrino presso Palermo.

Oltre all'arte parietale, si individua nel paleolitico un'arte detta mobiliare, che comprende oggetti d'uso decorati e piccole sculture.
Vanno in particolare ricordate le cosiddette Veneri, diffuse dalla Francia agli Urali (in Italia celebre è quella di Savignano), figurette femminili appena sbozzate, con un modellato che accentua alcune parti anatomiche come simboli di fecondità.


Image may be NSFW.
Clik here to view.
Venere di Savignano

Con la rivoluzione neolitica, nella quale l'uomo da cacciatore diviene agricoltore in insediamenti stabili (primi villaggi di capanne), si assiste ad una altrettanto rivoluzionaria apparizione di un nuovo materiale: la ceramica (dal greco kéramos, argilla, vasellame).
Le prime prove sono molto rozze: il blocco d'argilla è sommariamente modellato con le mani e decorato con impressioni, incisioni, graffiti geometrici.
Con l'introduzione della lavorazione al tornio è possibile ottenere manufatti molto più raffinati, di forma regolare e simmetrica.
Sulla base della forma e del tipo di decorazione del vaso è stato possibile individuare le diverse aree culturali, tra cui ricordiamo ad esempio quella danubiana (con linee incise) e quella dell'Italia settentrionale (vaso campaniforme).

Tra i più significativi prodotti ceramici del neolitico sono i vasi con decorazione dipinta a più colori (rosso, bruno, bianco e nero) dell'Italia meridionale.


L'ETA' DEI METALLI

Il termine preistoriaè convenzionalmente usato per indicare uno stadio culturale precedente la comparsa della scrittura (avvenuta all'incirca nel 3000 a.C. in Egitto e Mesopotamia).
Quindi si assiste ad un differenziato sviluppo a seconda delle aree geografiche considerate.

In Europa, nell'età del bronzo, è notevole il fenomeno dell'architettura megalitica (dai termini greci mégalos = grande, e lithos = pietra), che consiste nella costruzione di grandiosi blocchi di pietra che vengono infissi singolarmente in senso verticale nel terreno (menhir) , o riuniti in sistemi semplici, ad esempio in tre pietre, di cui due verticali sormontate da una orizzontale, con funzione di culto, commemorativa o funeraria (dolmen).



Image may be NSFW.
Clik here to view.
 Stonehenge

Celeberrimi sono i complessi di Stonehenge nella piana di Salisbury (lnghilterra), e di Carnac in Bretagna, con più di 2.500 menhir.

Sempre nello stesso periodo vi è una ricca documentazione di arte rupestre, come ci testimoniano le incisioni della Scandinavia meridionale, Irlanda, Galizia, il gruppo del Monte Bego (Alpi Marittime) e quelle più tarde della Valcamonica (IX-VIII secolo a.C.).
A questo contesto europeo si riferiscono anche le incisioni dell'alto Atlante in Marocco.

I temi più frequenti sono quelli della fecondità e del lavoro nei campi, ma appaiono anche raffigurazioni di rami, che dovevano avere un ruolo particolare nella celebrazione dei riti.

Tra Bologna e Parma nell'Ottocento vennero rinvenuti resti di abitati contrassegnati da cumuli di terra scura detti terremare. Alcuni presentano tracce di palafitte e argini, probabilmente contro le inondazioni.


LE CIVILTÀ URBANE: EGITTO E MESOPOTAMIA

L'EGITTO
  
Image may be NSFW.
Clik here to view.
Le piramidi di Cheope, Chefren e Micerino. Risalenti alla IV dinastia e costruite in calcare del posto, si articolano al loro interno in una rete di corridoi e gallerie.

L'età del bronzo ha il suo punto di massima fioritura nella civiltà egizia. Unificati i due regni (alto e basso Egitto) dal faraone Menes, la valle bagnata dal Nilo e arricchita dalle sue periodiche inondazioni diviene la culla di una prestigiosa civiltà.
Paradossalmente le nostre informazioni provengono non tanto dalle città dei vivi quanto da quelle dei morti: le grandiose necropoli dove sono state rinvenute le imponenti tombe dei faraoni.
Simbolo stesso della civiltà egizia è la piramide, rappresentazione materiale dei raggi del sole che proteggono il corpo del re.
Da una prima forma a gradoni (detta mastaba, come quella di Zoser a Saqqarah) si passa a quella a pareti lisce, di estrema purezza geometrica (piramidi di Cheope, Chefren e Micerino a Gizah presso Il Cairo).


Image may be NSFW.
Clik here to view.
La Sfinge accanto alla piramide di Chefren 

Accanto alla piramide di Chefren si eleva I'enigmatica Sfinge, che rappresenta il faraone, con il corpo di leone e la testa umana.

Mentre le piramidi sono collocabili cronologicamente nell'antico regno, di epoche più recenti (medio e nuovo regno) sono testimonianza i templi funerari ricavati nella viva roccia (Luxor e Karnak).
Alla complessità strutturale di questi edifici si univa un'altrettanto complessa elaborazione decorativa, che coinvolgeva pittura e scultura.
La pittura egizia rispondeva a criteri magici e simbolici: i corpi e gli oggetti dovevano essere raffigurati in posizioni e atteggiamenti convenzionali, senza alcun riguardo alla verosimiglianza. 
Ad esempio nel viso, rappresentato di profilo, l'occhio appare invece di prospetto e spesso di proporzioni maggiori, per evidenziare l'espressione ed esaltarne l'importanza.
La statuaria ha caratteristiche di monumentalità e fissità ieratica, cioè predilige gli atteggiamenti rigidi e solenni propri della divinità.


LA MESOPOTAMIA
  
Image may be NSFW.
Clik here to view.
Ziggurat del Dio della Luna Nanna 

Un importante capitolo della storia del Vicino Oriente antico è costituito dalla civiltà assiro-babilonese nata e affermatasi lungo il corso dei secoli nella regione mesopotamica.
Nel Sud del paese tra i due fiumicome i Greci chiamarono la Mesopotamia (oggi corrispondente a parte del territorio iraniano e irakeno) , la fertllità del terreno, ottenuta col controllo delle inondazioni del Tigri e dell'Eufrate, e la rapida evoluzione di una società sempre più complessa, determinarono uno sviluppo notevole dell'agricoltura e di una grande rete commerciale. Quest'ultima trovò i suoi nodi principali nei centri urbani, sede del potere politico, religioso e amministrativo.
Le città-stato dei Sumeri (prima popolazione storicamente attestata nella zona) erano poste sotto la protezione di una divinità, rappresentata in terra dal sovrano, e si articolavano attorno ad un tempio-santuario di mattoni, dalla caratteristica struttura architettonica piramidale.
Tale costruzione, chiamata Ziggurat, era formata da grandi terrazze di dimensioni decrescenti, poste l'una sopra l'altra e collegate da ripide scale che portavano alla sommità della torre. Qui sorgeva la cella (che fungeva anche da osservatorio astronomico) sede della divinità.
Tra gli esemplari meglio conservati ricordiamo la Ziggurat del Dio della Luna Nanna a Ur (lraq), risalente al periodo neosumerico (2230-2006 a.c.).



La civiltà sumera scomparve in seguito all'invasione dei bellicosi Assiri, che crearono un vasto impero esteso dall'Egitto all'Asia Minore.
Popolazione guerriera, lasciò una grandiosa testimonianza della propria cultura negli splendidi palazzi reali di Nimrud, Khorsabad e Ninive, decorati lungo le mura interne da una serie di originali rilievi dipinti.
Si tratta di raffigurazioni prevalentemente a carattere storico intese a celebrare la potenza e il valore del sovrano, impegnato in battute di caccia, o in sanguinosi combattimenti o infine in solenni parate militari. Compare qui, specie nelle scene con animali, un senso del movimento e dello spazio estraneo all'esperienza egizia e sumera.
La predilezione per una decorazione vivace e policroma si esprime nell'uso frequente della ceramica smaltata, nonché nella resa minuziosa dei dettagli ornamentali di vesti ed oggetti.


VEDI ANCHE . . .


ARTE NEL PORDENONESE (Art in Pordenone)

ARTE NEL PORDENONESE

UN AFFRESCO VOTIVO A VALVASONE


Quando si considera il patrimonio culturale friulano, non si deve dimenticare che molta parte, per la sua esatta comprensione, hanno le manifestazioni d'arte minore, tra le quali posto di preminenza occupano gli affreschi devozionali che ancora numerosi sussistono, pur se quotidianamente - si può dire - assistiamo alla loro scomparsa.
Un bell'esempio della loro importanza era questo affresco di via Trento 16 a Valvasone (non so se esiste ancora), copia del XIX secolo di un dipinto del 1605 eseguito da Anzolo da Portogruaro e conservato nel duomo di Valvasone. Il Cristo in pietra è lavoro recente di Severino Botto. L'insieme raffigura la S. Croce tra S. Elena e l'imperatore Costantino.


IL PORTALE DELLA PARROCCHIALE DI S. GIOVANNI DI CASARSA


Potrà non piacere, in quanto rappresenta un gusto che da poco è andato in disuso, "vecchio" quindi, e non ancora "antico", ma la parrocchiale di S. Giovanni di Casarsa è un monumento di notevole interesse per la sua organicità, un esempio tra i meglio conservati del "neogotico" nostrano.
Molti artisti (scultori, decoratori, intagliatori, orefici, artisti del ferro) vi hanno lavorato: tra gli altri, il cordenonese Luigi De Paoli (1857-1947) scultore legato al mondo classico, autore del bassorilievo con il Battesimo di Gesù nella lunetta del goticheggiante portale.


UN DIPINTO DEL PORDENONE


Il 1984 è stato un anno importante per l'arte friulana del Rinascimento. In occasione del quinto centenario della nascita di Giovanni Antonio Pordenone è stata infatti allestita a Passariano una grande mostra dei dipinti del maestro e di altri pittori friulani operanti tra la fine del XV e la fine del XVI secolo. Tra le opere più apprezzate, questa "Conversione di Saul". 
E' una delle parti interne delle portelle dell'organo del duomo di Spilimbergo, risale al 1524 e mostra nell'impaginazione larga e negli scorci arditi prerubensiani una delle caratteristiche più stupefacenti della poetica "pordenoniana".



UN AFFRESCO DEL TIUSSI A MORSANO


Image may be NSFW.
Clik here to view.
Chiesa di S. Rocco a Morsano al Tagliamento
Tra il 1500 ed il 1575 vive il pittore Marco Tiussi, figlio del pittore Giampietro da Spilimbergo, artista (o artigiano) di modestissima levatura, riportato in luce dall'oblio in cui era caduto da Goi e Metz una quarantina d'anni fa. E l'antipordenone per eccellenza: tanto quello brilla di capacita inventive e tecniche (sì da porsi a capo della scuola friulana), tanto Marco abbassa a livello naif la sua pittura, evidenziando anche scarsissime cognizioni tecniche.
Sappiamo addirittura che un nobile, messer Troilo, nel 1544 voleva rompere il contratto stipulato con il Tiussi (che doveva affrescare una parte del castello di Spilimbergo) perché le sue pitture non duravano. Ciò nonostante molte furono le commissioni di lavoro per il Tiussi, che operò soprattutto lungo la fascia tilaventina. 
Uno dei suoi più complessi affreschi è quello che si trova nella chiesa di S. Rocco a Morsano al Tagliamento, eseguito nel 1558: rappresenta la Madonna con Bambino tra S. Rocco e S. Sebastiano; sulla destra jl donatore inginocchiato, sovrastato da una lunga scritta. E', in pratica, un ex voto su muro.



IL SARCOFAGO DI WALTERPERTOLDO



Nella suggestiva cripta del duomo di Spilimbergo (che nel 2014 celebra i settecentotrenta anni dalla fondazione) è stato collocato da qualche anno il sarcofago di Walterpertoldo (II di Zuccola e IV di Spilimbergo) che prima sì trovava nella piazza del duomo. 
Risale alla fine del XIV secolo (un'iscrizione ricorda la nomina di Walterpertoldo a cavaliere avvenuta a Roma nel 1354 ed il successivo incarico a Treviso dove morì nel 1382) ed ha splendidi capitelli lavorati e telamoni che sostengono il cassone su una delle facce del quale campeggia - in bassorilievo - lo stemma degli Spilimbergo.



AFFRESCHI A TAURIANO



Durante i restauri effettuati dalla Soprintendenza agli affreschi del coro della parrocchiale di Tauriano di Spilimbergo e riaffiorata una scritta con la data 1502 ed il nome del pittore: Giampietro da Spilimbergo. E' così stato possibile dare paternità esatta ad un bel ciclo d'affreschi, con Dottori della Chiesa, Storie di San Nicola e della vita di Cristo. 
In essi Giampietro si mostra artista bloccato e convenzionale nell'impaginazione e nell'uso di cupi colori nella volta, e fresco e ingenuo narratore, calligrafico e sgrammaticato, dove può dispiegare le scene in spazi più ampi.


IL PILACORTE NEL DUOMO DI SPILIMBERGO


Giovanni Antonio Pilacorte da Carona, sul lago di Lugano, venne in Friuli poco dopo il 1480 e fisso la sua dimora a Spilimbergo. Artista estremamente prolifico, diffuse l'amore per I'intaglio della pietra in tutto il Friuli: fu imitato (e talora copiato) da una larga schiera di lapicidi. 
A Spilimbergo molte opere gli vengono attribuite, non sempre a ragione. I lavori di più alto impegno sono quelli che a varie riprese condusse nel duomo: il fonte battesimale, l'altare del Carmine, quello di San Giovanni, ricchissimi di intaglio. 
Soprattutto splendida e la balaustra che dà accesso alla cappella del Carmine, in cui perfetta è la fusione dei motivi ornamentali con la struttura architettonica. Sopra di essa sono posti quattro angeli reggicandelabro che rappresentano una delle più felici realizzazione del maestro. 
La grazia dell'espressione, la classica compostezza, l'inanellare i boccoli, il tenue chiaroscurare derivano certamente dall'arte veneziana di Pietro e Tullio Lombardo, ma il Pilacorte riesce a far suoi i motivi appresi ed a conferire loro una provinciale plastica serenità.






Viewing all 570 articles
Browse latest View live